UNA GUERRA CIVILE PER “FARE” GLI ITALIANI. Parte 2.

Siamo giunti ai dieci anni (1860-1870) del cosiddetto Brigantaggio, definito da alcuni, una guerra contro il popolo meridionale. Un testo che veramente racconta con ampia documentazione la storia della conquista militare del nostro Sud è il libro di Franco Molfese, «Storia del brigantaggio dopo l’unità», edizioni Feltrinelli.

L’interpretazione classista di Molfese è stata successivamente mitigata, secondo lo storico Francesco Pappalardo, si è distaccato «da quelle “[…] correnti politiche e ideologiche piuttosto confuse di estrema sinistra giovanile che attribuiscono al brigantaggio un contenuto anticapitalistico o, comunque, antiborghese maggiore di quanto ebbe realmente». Anche se ancora oggi per Pappalardo, l’opinione diffusa presso il grande pubblico è che «alla base della rivolta dei contadini è un movente economico-sociale che non è certamente compreso da chi vuole servirsi per fini politici di povera gente vilipesa e oppressa».

Il testo di Molfese si divide in due parti. La 1a (Il grande brigantaggio); la 2a (Attacco e liquidazione del brigantaggio). Già nella premessa, Molfese è convinto che il brigantaggio costituisce una delle pagine più fosche e meno note della storia dell’Italia moderna. Probabilmente la storiografia liberale per non macchiare il mito dell’unanimità dei plebisciti d’annessione ha oscurato del tutto questa pagina di Storia, come del resto ha fatto con quella delle Insorgenze popolari contro gli eserciti napoleonici. Lo studio di Molfese è straordinario, un lavoro vastissimo mai esplorato. Del resto lo storico ha potuto attingere a questo materiale essendo vice direttore della biblioteca della Camera dei deputati.

Il libro è corredato di ben 60 pagine di note, in più 22 pagine di bibliografia. Inoltre sono presenti tre appendici, tra queste, l’archivio della commissione d’inchiesta sul brigantaggio nelle provincie meridionali del 1863. Peraltro il testo, come ho potuto constatare, viene spesso citato da altri storici come autorevole fonte.

Nel testo si raccoglie un gran numero di notizie, di documenti, di nomi tra briganti e ufficiali dell’esercito sardo, di località più o meno importanti e soprattutto di scontri armati in tutti i territori del meridione continentale. Certamente chi intende studiare il fenomeno del brigantaggio non può fare a meno di quest’opera anche se scritta molti anni fa. Infatti la prima edizione è del 1964.

La rivolta contadina contro i possidenti liberali e rivoluzionari viene legittimata dalla monarchia borbonica. Intanto, «si consolida in tal modo tra le masse, quel diffuso stato d’animo di resistenza e di avversione al nuovo regime unitario, che costituirà il fondamento psicologico di massa della combattività e della violenza delle successive ‘reazioni’, del conseguente sviluppo della protesta armata e del brigantaggio».

La reazione dei contadini alla dittatura garibaldina cresce nel continente, si organizzano bande di combattenti del brigantaggio soprattutto per opera dei pontifici. I garibaldini hanno affrontato la minaccia militare borbonica in Terra di Lavoro e la guerra sociale in Abruzzo e nel Sannio, ma anche un’ondata di sommosse sanguinose che scoppiò un po’ dappertutto nelle altre regioni.

In sostanza al Sud la monarchia sabauda e il governo cavouriano, che non avevano una conoscenza della vera realtà nel Mezzogiorno, hanno dovuto affrontare enormi problemi: il fenomeno dei briganti, appoggiati dai borbonici, ma anche quelli politici, la diffidenza dei democratici garibaldini.

Nello stesso tempo a Torino i vertici militari si trovarono a risolvere la questione del reclutamento dei componenti dell’esercito garibaldino. C’erano i soccorritori dell’ultima ora, gli “arrivisti” e gli «opportunisti che poco avevano osato ma molto pretendevano raccogliere». Probabilmente i governanti torinesi hanno fatto qualche errore, per esempio licenziando molti “volontari” garibaldini meridionali, che poi diventarono futuri briganti e quindi protagonisti dell’insurrezione contro il nuovo Stato unitario. Altra questione non di poco conto, fu quella dei prigionieri borbonici: che cosa fare dei “napoletani”, arruolarli nell’esercito regio oppure mandarli in prigione nel Borneo, a Macao o in qualche isola sperduta? Molfese ignora o non vuole dare conto del tragico esodo, la deportazione dei poveri napoletani nei lager dei Savoia, come Fenestrelle e S. Maurizio, così ben descritta da Fulvio Izzo.

C’è stata una certa sottovalutazione dei vari dirigenti del governo a Torino, a partire da Farini, Fanti, Della Rocca e lo stesso Cavour, della sollevazione contadina a direzione reazionaria. Intanto in tutto il Meridione dappertutto si registrano manifestazioni, proteste, scioperi e malcontento.

Nell’inverno 1860-61 inizia il grande brigantaggio; bande armate si andavano costituendo un po’ dappertutto, vi accorrevano ex soldati borbonici già congedati o “sbandati”, renitenti ai richiami, disertori, evasi dalle carceri, contadini e montanari ansiosi di libertà, di bottino e di vendetta. Qui inizia il racconto dettagliato di Franco Molfese, che ha potuto consultare archivi di Stato, biblioteche. E’ un susseguirsi di nomi di comandanti briganti e di località, di continui scontri con gli eserciti regolari provenienti dal Nord e con la Guardia nazionale. L’epicentro degli scontri è stata la Basilicata nei boschi del Volture e di Lagopesole, di Rionero, dove primeggiava Carmine Crocco con la sua nutrita banda ed il suo luogotenente Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco-Nanco.

Il Molfese, pubblica un elenco delle bande brigantesche attive fra il 1861 e il 1870 e ne individua ben 388 (trecentottantaotto), dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400. Molti sono nomi noti altri meno. Fra le grandi bande, Molfese cita quelle di Giovanni Piccioni, Luigi Alonzi (Chiavone), Tristany nella Terra di Lavoro, e Stato Pontificio; di Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello nell’Irpinia e Salernitano; di Carmine Donatelli (Crocco), Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Giuseppe Caruso in Basilicata; Sergente Romano in Terra di Bari e Terra d’Otranto.

Scrive Molfese: «Le forze dell’esercito e le guardie nazionali sostennero il peso della lotta con non poca difficoltà. Il nemico agiva di sorpresa, mobilissimo, si ritirava fulmineamente dopo aver colpito, tendeva agguati continui, si batteva soltanto in condizioni favorevoli di tempo, di luogo e di forze. Le continue perlustrazioni non davano risultati apprezzabili; le piccole bande sfuggivano ad ogni rete: le bande più grosse, non appena strette davvicino, si frazionavano e si disperdevano. Gli scontri […] si riducevano in genere ad uno stillicidio di scaramucce con perdite esigue da ambedue le parti, ma che comportavano un grande logorio di forze fisiche […]».

Oltre ai briganti, bisognava colpire «a fondo la reazione clericale-borbonica mediante misure poliziesche, quali l’arresto e l’espulsione dal regno di personalità del clero […]”. In questo periodo ben 71 sedi vescovili risultano vacanti.

Il governo Ricasoli continua a nascondere o perlomeno di minimizzare i fatti del brigantaggio non solo nel Paese ma anche all’estero. Si pensi che il rapporto Massari, ma anche quello di La Marmora sono stati segretati, almeno il popolo non ne era a conoscenza. Intanto si nega qualsiasi carattere politico all’azione del brigantaggio, in quanto svolto da “volgari assassini”, che agiscono di propria iniziativa, senza guide legittimiste o di ufficiali borbonici.

Nell’estate del 1861 il governo borbonico in esilio, decise di dare una direzione militare e un forte indirizzo legittimista alla spontanea rivolta contadina. Viene incaricato il generale spagnolo Josè Borjes, di coordinare le varie bande per cercare di farle diventare un esercito. C’era quasi riuscito ad imporre le sue idee ai capibande, compreso Crocco. Con Borjes al comando i briganti avevano ottenuto delle significative vittorie. Borjes non raggiunge il suo scopo: far valere la sua strategia militare a Crocco e compagni, ben presto ha dovuto ritirarsi e ritornare a Roma. Sul confine con il territorio pontificio fu catturato l’8 dicembre 1861 e fucilato a Tagliacozzo.

Nella seconda parte Molfese descrive la repressione dell’esercito sardo-piemontese che si avvale della Legge Pica. L’esercito è il protagonista assoluto, il libro descrive il carattere e l’arbitrarietà della repressione dello stato d’assedio dei vari generali nei confronti dei “cafoni” meridionali. Si intendeva spargere un “salutare terrore” tra i briganti ed i loro sostenitori. E’ impressionante il numero dei soldati impiegati per reprimere il cosiddetto brigantaggio, quasi 120.000 soldati, ciò significa secondo Molfese, che il brigantaggio in quegli anni sia stato un fenomeno di massa, che andava ben al di là dei briganti alla macchia.

Il numero preciso degli arrestati e dei fucilati non lo si saprà mai, ma furono tantissimi. Un vero massacro, un olocausto del Sud. Nelle conclusioni lo storico romano si chiede se tutto questo si poteva evitare.

Su questo aspetto propongo un’articolata risposta di Francesco Pappalardo, storico cattolico conservatore, nonché studioso del brigantaggio. «Permane tra gli storici un filone «unitario» che considera ancora i briganti alla stregua di delinquenti. E un filone marxista duro a morire che ripresenta il brigante come il cafone che prende le armi perché oppresso socialmente. Eppure anche uno storico come Giuseppe Galasso, che non è certamente filo-borbonico, insiste molto sulla componente dinastica: se nel 1799 ci fu una controrivoluzione per difendere la religione, dal 1860 ce ne fu una per difendere il regno. Certo libri come Terroni di Pino Aprile non aiutano svolgere a un ragionamento articolato: si semplifica e si banalizza troppo etichettando il Nord come predone del Sud. Non è che i piemontesi fossero cattivi. C’è stato un ceto dirigente che ha imposto uno Stato unitario anti-cattolico, non rispettoso delle altre entità statali della penisola, diverse per storia, costumi e cultura. La questione meridionale nacque allora, così pure quella cattolica e quella federale. È un processo storico che merita di essere riconsiderato. Ci sono anche lodevoli iniziative culturali, per esempio a Gaeta e in Basilicata. Ma attenzione a fare del folklore».

Il terzo studio da cui traggo informazioni sul cosiddetto brigantaggio o conquista militare del Sud è quello di Gigi Di Fiore, “Controstoria dell’unità d’Italia. “E’ una rappresentazione del Risorgimento diversa dai ricordi scolastici”, scrive Di Fiore nella prefazione. E’ un tentativo per capire meglio, senza intenti agiografici, ricostruire senza miti, come siamo diventati uniti.

Per decenni nessuno si è chiesto il motivo della guerra al Sud: “perché fu tanto difficile, e solo con l’ausilio di cannoni e fucili, domare la ribellione contadina nelle regioni del Mezzogiorno subito dopo l’annessione, oppure perchè si moltiplicarono, sempre in quelle aree, gli ‘stati d’assedio’ e furono necessari leggi speciali per conservare l’integrità nazionale”. Fatta eccezione per i conflitti con l’Austria, “la rivoluzione ottocentesca nella penisola fu in gran parte una guerra civile tra italiani, soprattutto al Sud”. Eppure ancora in molti considerano il Risorgimento, una pagina trasparente della storia nazionale, “una specie di bella favoletta, con gli eroi tutti da una parte e i cattivi dall’altra”. Insomma secondo Di Fiore, con un po’ di pazienza e di documentazione seria, senza pregiudizi e con serenità, si può “arrivare a riempire un “Libro nero” di episodi, ambiguità, furbizie che contribuirono a realizzare l’unità d’Italia”.

Il tema della guerra del nuovo Regno contro i contadini del Sud viene affrontato in due capitoli il 6° e il 7°. (“La guerra contadina” e “Fucilateli tutti”).

Le prime rivolte si ebbero in Abruzzo quando ancora Francesco II resisteva a Gaeta. C’era confusione e incertezza, sindaci liberali si avvicendavano a sindaci borbonici.

Ben presto i generali Fanti e poi Cialdini si affidarono ai Tribunali militari per giudicare i cosiddetti briganti, i contadini in rivolta. Anche Di Fiore racconta episodi di rastrellamenti, di vere battaglie contro i briganti. Il generale Ferdinando Pinelli entrando a L’Aquila, diffuse un bando, che indignò persino i suoi superiori: riferendosi ai contadini in lotta, li definì, “Un branco di quelle progenie di ladroni ancora si annida tra i monti, correte a snidarli e siate inesorabili come il destino. Contro i nemici tali la pietà è delitto”. Eppure Vittorio Emanuele aveva salutato gli abitanti delle Due Sicilie affermando conciliante: “Non vengo a imporvi la mia volontà, ma a ripristinare la vostra”. La “normalizzazione” si sarebbe rivelata molto difficile. Se ne era accorto il generale comandante dell’esercito nel Mezzogiorno della Rocca. Erano troppi i morti, i fucilati, troppi “ribelli”, che figura faceva il nuovo Stato di fronte all’Europa.

All’alba dell’unità d’Italia il Mezzogiorno si rivelava una vera e propria polveriera. L’epicentro della rivolta divenne la Lucania dove Carmine Crocco riuscì a riunire sotto il suo comando fino a 1000 uomini. Le ribellioni aumentavano. Nel 1861, le campagne meridionali divennero un vulcano in ebollizione. Anche Di Fiore conta le varie bande presenti in tutte le regioni. Ognuno di questi briganti aveva un motivo per darsi alla macchia. Ufficialmente l’esercito italiano parlava di repressione poliziesca, “ma il numero dei coinvolti sembrava più da conflitto civile”, scrive Di Fiore. I massacri da ambo le parti, erano all’ordine del giorno. Ma soprattutto l’esercito venuto dal Nord si è reso protagonista di veri e propri eccidi. ”La repressione senza alcuna spiegazione, la distanza culturale tra gli ufficiali piemontesi e la gente del Sud contribuirono a trasformare quei militari venuti dal Nord in estranei. Nessuno riusciva a sentirli come soldati del proprio Stato in cui riconoscersi. Per tutti erano conquistatori che volevano imporre usanze e culture lontane. ‘Piemontisi’. Molti ufficiali parlavano francese e furono costretti ad avvalersi di interpreti per parlare con le popolazioni locali di cui non comprendevano lo sconosciuto dialetto”. Se questa era la situazione molti nobili da tutta Europa, sposavano la causa borbonica e mettevano la propria spada ai piedi della regina Maria Sofia, pronti a combattere per farle riavere il trono. Uno di questi come abbiamo visto era il famoso spagnolo Josè Borjes, che tentò in tutti i modi di far diventare la resistenza armata dei contadini lucani una sorta di esercito legittimista borbonico, ma Crocco e molti altri rimanevano soltanto dei briganti, peraltro sanguinari e assassini.

La ricostruzione storica di questa guerra non sempre si è mantenuta nella verità oggettiva, spesso finzioni, propaganda contribuivano ad occultarla, soprattutto da parte di chi stava reprimendo. Per Di Fiore,“i briganti erano più motivati dei militari che dovevano fronteggiarli […]”. Anche se per loro c’era una vita abbastanza poco tranquilla, il testo descrive bene le loro condizioni molto precarie.

L’unica ricetta individuata dai comandanti militari a Napoli per controllare l’ordine pubblico è stata la militarizzazione del territorio. Alla fine i vertici militari in particolare, il generale Cialdini, creò il deserto intorno alle bande dei briganti, per poterle isolare. Tra i comandanti più spietati si è distinto il maggiore Pietro Fumel che prometteva 100 lire a chi consegnava un brigante vivo o morto. Due erano le alternativa di quella guerra spietata: a favore o contro i briganti. Per Fumel erano complici dei briganti anche gli “indifferenti”, in questi casi, “la neutralità è un crimine”. Al Sud era in atto uno scontro tra culture e storie diverse. Il cafone, il contadino veniva considerato sempre un potenziale nemico. La guerra contro i contadini veniva applaudita anche dai liberali meridionali come Luigi Settembrini. I deputati meridionali esuli in Piemonte, facevano a gara per giustificare ogni azione del governo di Torino. E se c’era qualcuno che osava criticare “il modo in cui si stava costruendo l’Italia veniva subito accusato di essere antiunitario o, peggio, di avere simpatie borboniche”. Ne più né meno quello che accade oggi. Di Fiore elenca i numeri impietosi di questa vera e propria guerra civile. Il governo sabaudo in questi dieci anni di guerra, impiegò ben 53 tra generali e colonnelli.

Il testo di Di Fiore accenna alla funzione propagandistica della fotografia in questa lotta spietata contro i briganti. Utilizzate anche dallo psichiatra Cesare Lombroso e dal sociologo Alfredo Niceforo, che stavano lavorando per dimostrare che i meridionali, in particolare i briganti, erano una razza inferiore. Inoltre tutto il Sud era arretrato, ecco la semplificazione che portava alla condanna genetica della rivolta contadina. La ribellione veniva spiegata in un unico modo: ”l’inferiorità culturale di quella gente che non riusciva ad apprezzare la civiltà e il progresso che le erano stati offerti”. Pertanto, gli studi, le fotografie, ebbero l’obiettivo di dimostrare quella teoria: arretratezza, ignoranza, violenza innata. Sorvolo la questione del brigantaggio siciliano e di quello calabrese. Si è combattuta una “sporca guerra”, somigliante a quella del selvaggio West americano, le vicende ne avevano tutte le caratteristiche: inseguimenti con i cavalli, assalti a treni e convogli e poi tutti gli orrori delle guerre senza regole, come gli eccidi della popolazione di Pontelandolfo e Casalduni. Mi fermo, conoscere la Storia, studiarla è un sacrificio, bisogna avere pazienza e documentarsi con libri seri come quelli che ho presentato in questo mio studio. Peraltro leggere è un “lavoro” particolare che dovrebbe essere maggiormente valorizzato a partire dalla scuola.

Torino, 4 aprile 2024

S. Isidoro, vescovo e dottore della Chiesa.           DOMENICO BONVEGNA

                                                               dbonvegna1@gmail.com

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