I PROFUGHI UCRAINI COME GLI ITALIANI GIULIANO-DALMATI ISTRIANI.

Credo di fare una buona cosa nel pubblicare una interessante riflessione di don Antonello Lapicca, sulla tragedia che sta vivendo il popolo ucraino in questi giorni. Per certi versi molto simile a quella che hanno vissuto i nostri connazionali costretti ad abbandonare le terre istriane e giuliano-dalmate alla fine della Seconda Guerra mondiale. Il testo è ripreso dalla sua pagina facebook.

Da quando sono piccolo risuonano in me, sin giù nel profondo, i racconti di mia madre, strappata violentemente dalla sua terra a causa della II guerra mondiale. In un giorno ha perso tutto, radici, amici, casa, cose, alberi e scogli, mare e gabbiani, granchi e pesci che saltavano dalla cesta alla padella. Quelle merende inzuppate nell’olio e nel mare non le ha più fatte. E, oltre a questo ingiusto sradicamento, il rifiuto nella propria Patria, da parte di quegli italiani come lei con i quali la sua famiglia aveva scelto di vivere. A costo di lasciare tutta una vita a chi gliel’aveva rubata. Sono cresciuto con il mito dell’Istria, una terra benedetta dove, nel mio immaginario di bambino, non pioveva mai, c’era sempre il sole e la gioia. Potenza dei ricordi, in particolare di quelli troncati di netto, solcati dal dal sangue e dal dolore.

Esattamente come sta accadendo a mia madre, anche in me le immagini che in questi giorni vengono dall’Ucraina destano ricordi. Quelli di mamma le sfiora di nuovo il cuore e inumidiscono gli occhi. Quelli miei, in braccio ai suoi, rimescolano la mia storia, diversa eppure così simile a quella di mamma, e di chi, oggi, in Ucraina, soffre la stessa follia satanica. Fisso i bambini, e gli anziani, e i giovani, e poi i soldati, perfino le donne in divisa, e ripenso a quelli che, nella mia memoria, ho visto oppressi dalla guerra e dalla violenza in mille altri posti, in quelli degli invasi, ma anche in quelli degli invasori, e hanno tutti, ma proprio tutti, la stessa malinconia infilata negli occhi.

Ancor più della paura intercetto la medesima triste nostalgia incipiente che in quei momenti mette radice negli sguardi, per scendere sino al più intimo dove crescerà per esplodere in mille rivoli di dolore, ira, commozione, passione e compassione, odio e amore. Forse perché ripenso ai miei sguardi, a quelli che mi sono rimasti dentro come un sigillo a fuoco, incancellabili, anche se nella mente non emergono ricordi da guardare e pensare. 

Fisso i volti dei bimbi nascosti, e penso mia madre e a me stesso, tutti nascosti in un tempo che vorremmo non fosse passato mai; tutti rifugiati in un bunker di cielo, mare, montagna, odori e sapori, voci e sguardi che non vorremmo ci sfuggisse mai dalle mani, dagli occhi, dal cuore. Tutti rintanati in un utero immaginario e ideale dove lasciar fuori il male che abbiamo conosciuto da quando abbiamo visto la luce, per accarezzare il bello e il buono che abbiamo assaporato, sognando di riviverli e gustarli senza che abbiano fine. Rivedo nei volti ucraini la mia storia nella storia di esule che ha vissuto mia madre, una vita graffiata da una guerra che non è finita mai, sempre pronta a saltar fuori e a rimestare ricordi che sono persone e cose vive.

Perché la guerra inizia e non finisce più, nessuna pace può fermarla nella mente, nel cuore, negli occhi di chi l’ha vissuta. Perché il male da cui esplode è la negazione totale dell’uomo, si pianta dentro come un cancro che semina metastasi ovunque. Come la tubercolosi che non c’entra nulla con il tuo organismo, lo attacca e fa danni; non la debelli nemmeno con gli antibiotici, si nasconde e poi, dopo anni, ti azzanna di nuovo. Lo sappiamo tutti quanti abbiamo fatto l’esperienza di un rifiuto, un abbandono, un tradimento; dell’invasione violenta e distruttrice del peccato di chi ci è accanto. Lo sa chi ha assaporato il fiele dell’ingiustizia. Sa che la guerra semina guerra sempre; ogni guerra combattuta dentro e fuori dell’uomo, tra nazioni come tra popoli, e coniugi, fratelli, amici, colleghi, persone, semina vendette, sete di giustizia, rancori e odi millenari. 

Le foibe e le vendette trasversali, identiche in Italia appena finita la guerra, identiche a qualsiasi parte del mondo, come oggi a Kiev dove già cominciano ad uccidersi tra fratelli, sabotatori o traditori. Lo sappiamo che la guerra non si vince con la guerra. E la pace non si si ottiene con le armi. Quando non trionfano gli aggressori, a volte con le armi si ferma un’aggressione, e lo scorrere del sangue; si aggiustano i cocci, si cerca di mettere ordine nei confini, come due coniugi che divorziano davanti a un giudice. Ma questo tipo di pace nasconde il seme di guerre future, perché le armi, la violenza, la forza non sanno curare il cuore, da dove ogni guerra ha inizio.

Andando con mia madre in Istria ho visto che la pace, l’unica autentica, non è mai un abito cucito da altri che dobbiamo solo indossare. La pace è seminata, gestita e nasce solo nel cuore, come un antidoto efficace al male seminato, gestato e che nasce nel cuore. Ogni pace siglata dai governi al tacere delle armi non coincide mai con quella dei cuori di chi ha patito la guerra, facendola o subendone le conseguenze. La pace sorge da un cuore riconciliato, dove ogni ingiustizia è divenuta il grembo fecondo di una nuova giustizia, infinitamente più grande di quella terrena e umana. La pace annunciata da Cristo risorto, l’unico giusto ingiustamente ucciso. La pace che scaturisce dalla giustizia della Croce che giustifica chi non è giustificabile, perdona chi non ha alcun diritto di essere perdonato. La pace che trasfigura la guerra più sanguinosa in un grembo di relazioni nuove, come la risurrezione di Cristo ha trasfigurato il sepolcro nella porta dischiusa sulla vita eterna, il peccatore in un santo, l’odio in amore.

La pace non può che essere l’incarnazione del perdono di Dio consumato sulla Croce del Figlio. Chi ha sperimentato il suo abbraccio di misericordia non può che sentirsi riconciliato con Dio, con se stesso e con gli altri. Tutti, nessuno escluso. Per questo la Pace di Cristo non nasconde, dimentica o sbianchetta dolori, ingiustizie, ferite, ma infilza sulla sua carne crocifissa ogni istante macchiato dalla guerra. E lo trasfigura nell’amore e nel perdono. Così, riconciliata nell’esperienza di questo amore infinito, mia madre ha potuto scorgere i suoi fratelli nei discendenti di quelli che usurpavano la sua infanzia, la sua casa, la sua vita. Anche loro infatti avevano le stigmate della guerra, e di altre che ne sono venute; anche loro erano stati abbracciati dallo stesso amore crocifisso. E laggiù, nel fondo del cuore, per mia madre, è scoppiata la pace. Che non è di un momento, ma va vissuta e coccolata, curata e nutrita giorno per giorno nell’intimità con Cristo. È Lui che ci ammaestra, ci consola e corregge; che, come sto sperimentando proprio in questi anni, ci prende per mano per farci uscire dai bunker di paura e nostalgia, per entrare, da risorti – perdonati e riconciliati – nella storia che ci avvicina, per amarli, ai nemici che solo in Cristo diventano amici.

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