UN LIBRO PER RISCRIVERE LA STORIA DELLA SICILIA DOPO IL 1860.

LA STORIA DELLA SICILIA DOPO IL 1860 E’ DA RISCRIVERE. E’ qui che si racconta della grande rivolta popolare del “Sette e mezzo” e di tanti altri tumulti in quasi tutti i centri della Sicilia…ma nessuno ha scritto nulla…La storia ufficiale ha censurato tutto…

Ognuno festeggia a modo suo il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, io l’ho fatto leggendo il libro di Tommaso Romano, Sicilia 1860 – 1870. Una storia da riscrivere, pubblicato da ISSPE (Istituto Siciliano Studi Politici ed Economici), Palermo 2011 (pp.251).

Alcuni capitoli del libro di Romano, soprattutto quelli delle rivolte del popolo siciliano contro il nascente Stato liberale sabaudo che imponeva tasse e la leva obbligatoria indiscriminata, con città e paesi in stato d’assedio, ricordano per certi aspetti le rivolte dei forconi del gennaio scorso. Non per nulla sui giornali, in televisione, si evocavano vecchi fantasmi dell’indipendentismo siciliano, del brigantaggio, dell’insorgenza clericale-borbonica degli anni subito dopo il 1860. A questo proposito scriveva in quei giorni il quotidiano online siciliainformazioni.com: “Mentre nelle piazze i Forconi, Forza d’Urto e Vespri agitano vecchie e nuovi problemi siciliani e tipicamente meridionali, il web è teatro di una guerra combattuta da sigle ‘extraparlamentari che si richiamano alle ragioni delle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia. Ci sono siti e blog sulfurei, che affiancano, ma non troppo, i movimenti parapolitici: le associazioni e i movimenti duosiciliani e borbonici. ‘Sud indipendente’, la sigla più gettonata, e Insorgenza, culturalmente di Destra”.

Certo non intendo forzare gli eventi facendoli diventare quello che non sono: la rivolta dei forconi contro il caro benzina non è una rivolta legittimista borbonica, indipendentista o autonomista, però leggendo le pagine del libro di Romano, qualche similitudine traspare qua e là.

Il libro consta di 10 capitoli e di ben 27 pagine di bibliografia, basterebbe solo questo dato per scrivere che il testo può essere definito culturalmente e scientificamente corretto e ben documentato.

Il processo di conquista del nuovo Stato liberale in Sicilia si è attuato attraverso gli apparati burocratici a cominciare dai Prefetti giunti nell’isola affiancando direttamente il dittatore Garibaldi, prima con Antonio Mordini e poi con tutti gli altri. Il regime che si instaurò in Sicilia fu subito caratterizzato da pesanti restrizioni alla libertà personale, con tasse e misure come la coscrizione obbligatoria, che apparvero subito al popolo, logico compimento di una sostanziale e ferrea occupazione, in cui Prefetti, Questori, Polizia e Forze armate reprimevano anche violentemente – come si documenta nel libro – moti popolari, insorgenze spontanee.

Di queste rivolte, il testo di Romano fa un elenco circostanziato dei vari movimenti più o meno organizzati che si ritrovarono a combattere, magari strategicamente insieme, contro il nuovo statalismo prevaricatore del neonato Regno d’Italia. Troviamo, da una parte, repubblicani, radicali, garibaldini delusi e dall’altro fronte, clericali, cattolici, regionisti, vecchi e nuovi autonomisti, indipendentisti, e poi il cosiddetto Partito Borbonico e Legittimista, che “non era in realtà – scrive Romano – composto da un gruppo ristretto di nostalgici e che comunque, forse per comodità o per reale paura, veniva indicata dalle autorità del regno sabaudo, nei rapporti ministeriali e in quelli di politica interna, come ‘regista’ (anche sotto mentite spoglie, addirittura repubblicane) di ogni sommossa, di ogni critica o dissenso”. (pag. 14)

Dopo l’unificazione, per almeno un decennio, in Sicilia, ma anche a Malta e a Marsiglia, troviamo diversi esponenti borbonici, anche se la gran parte, in particolare i nobili come i Tancredi Falconeri o i Consalvo Uzeda, protagonisti dei romanzi del Gattopardo o del Vicerè, erano già transitati nel nuovo regime per difendere vecchi e nuovi privilegi insieme ai grandi proprietari terrieri e agli speculatori fattisi ricchi con nuovi “affari”. La Chiesa Cattolica, dopo una prima infatuazione “patriottica” e filogaribaldina, la maggior parte si ritrovò nel fronte conservatore e tradizionale e in più casi, in quello legittimista e borbonico, patendo persecuzioni e arresti per tutto il decennio.

Nel Parlamento a Torino o a Firenze a opporsi contro i misfatti e le angherie del Regno sabaudo c’era Vito D’Ondes Reggio e Emerico Amari. Da ricordare il marchese Vincenzo Mortillaro di Villarena, capo dei legittimisti, una grande personalità del mondo culturale siciliano e protagonista della vita palermitana, robusto studioso e intellettuale vivace. Buon conservatore, cattolico in politica e tradizionalista nelle idee. Nel libro, Romano lo contrappone all’altro studioso siciliano, Michele Amari, che essendo agli antipodi della concezione politica ed etica di Mortillaro, ebbe maggior successo e quindi è più conosciuto.

La Sicilia ebbe pure il suo brigantaggio interno, originato per la gran parte da renitenti alla leva e da contadini disperati dalle tassazioni spropositate, i quali coadiuvarono – come avvenne per la rivolta del Sette e mezzo a Palermo nel 1866 – i ribelli. Brigantaggio che, oggettivamente, ebbe caratteri diversi rispetto al brigantaggio meridionale, di cui molto si è già scritto, anche se in questo ulteriore caso ricerche e ipotesi rimangono per gran parte sul tappeto e tutte da esplorare, andando oltre i rapporti di polizia e dei Prefetti, fonti importanti ma, certamente, di parte”. (pag.15)

Il professore Tommaso Romano, fondatore e direttore della Casa editrice Thule, ci tiene a precisare che l’obiettivo di “Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere”, non è quello di “alimentare nostalgie incapacitanti, ma guardare all’avvenire della Sicilia e del Sud, ripercorrendo le tappe di una realtà tragica che ancora scontiamo pesantemente”. Pertanto ci sentiamo parte integrante della Storia italiana, ma nello stesso tempo, vogliamo conservare l’onore del nostro essere meridionali, non per inutili rivendicazioni o per un semplice ritorno del maltolto (che pur ci spetterebbe!)

Nel 1° capitolo, “Dopo l’invasione: Bronte e non solo, già nel titolo, l’autore fa intravedere che non c’è da ricordare solo la pur nota rivolta contadina di Bronte con conseguente eccidio,“in quella torrida estate del 1860 – scrive Romano – non pochi furono i tumulti in vari paesi poveri della Sicilia a seguito delle mancate promesse: Regalbuto, Polizzi Generosa, Tusa, Biancavilla, Racalmuto, Nicosia, Cesarò, Randazzo, Maletto, Petralia, Resuttano, Montemaggiore, Castelnuovo, Capaci, Castiglione, Collesano, Centuripe, Mirto, Caronia, Alcara Li Fusi, Nissoria, Mistretta, Cefalù, Linguaglossa, Trecastagni, Pedara. Tumulti che nascevano appunto dall’illusione, dalla constatazione della mancata promessa di abolire la tassa del macinato e altre imposte e balzelli, nonché dal tradimento dell’atto del 2 giugno 1860, firmato da Francesco Crispi, dall’inganno relativamente alla divisione delle terre dei demani comunali molti dei quali, invece, assegnati ai garibaldini combattenti o ai loro eredi, se caduti”. (pag. 20)

IL “BRIGANTAGGIO” SICILIANO DOPO IL 1860.

Nella presentazione presso il Palazzo Jung a cura della Provincia di Palermo, del libro Sicilia 1860 – 1870. Una storia da riscrivere, edito da Isspe, l’autore Tommaso Romano, prendendo la parola ha sottolineato, che anche se la storiografia ufficiale non lo ha scritto, la Sicilia ha avuto il suo brigantaggio, le sue rivolte di popolo, sia nelle città, che nei piccoli centri contro il nuovo Stato unitario sabaudo. E se nei decenni prima, negli anni delle cosiddette insorgenze del popolo italiano contro gli eserciti francesi di Napoleone, la Sicilia non insorse, adesso con il cosiddetto Risorgimento, definito da O’ Clery, la Rivoluzione italiana, la Sicilia insorge eccome. Il libro di Romano partendo dall’impresa “garibaldina”, che fu sostanzialmente un’operazione di pirateria internazionale, sostenuta dal piccolo Piemonte e dall’Inghilterra, parte dalle stragi di Bronte, poi affronta l’argomento del naufragio e della morte di Ippolito Nievo, che aveva preso le distanze da ciò che riguardava l’Esercito Meridionale di Sicilia e da come stava evolvendo la situazione politica e militare dell’Italia. Infatti, il Nievo non condivideva più come si stava comportando il nuovo Stato. Ecco perché è stato fatto sparire insieme al suo Resoconto sulla gestione dell’impresa garibaldina.

Segue il racconto e siamo al 3 capitolo, sull’ultima eroica resistenza borbonica della Real Cittadella di Messina, caduta il 13 marzo 1861. Romano per questo argomento rinvia al recente volume curato insieme a Nino Aquila, La Real Cittadella di Messina 13 marzo 1861 l’ultima bandiera borbonica in Sicilia (Thule, Palermo 2011).

Nel 4 capitolo il libro si occupa dei plebisciti farsa che si svolsero il 21 ottobre 1860, con ridicole votazioni, senza alcuna segretezza di voto, fra pochi intimi notabili, dei quali molti garibaldini ammessi al voto in più sezioni elettorali. Gli elettori furono 575.000 (il 25% di 2.232.000), votarono 432.762. Di cui soltanto 667 contro l’annessione allo Stato sabaudo. Si racconta di un villano che gridò: Viva Francesco IIFu ucciso all’istante. Vittorio Emanuele II presente a Palermo per la cerimonia unitaria, assicurò ai siciliani di instaurare un governo di riparazione e di concordia. Parole paradossali in confronto a quello che succede nei giorni successivi. “Il governo regio – scrive Francesco Renda – fu tutto che di riparazione e di concordia(…)lo Stato unitario nell’isola presentò subito caratteri autoritari(…)

Alle violenze e repressioni ai danni delle popolazioni siciliane, volute prima dai garibaldini e poi dai regi piemontesi in funzione di conquista e di dominio, rispondono soprattutto, gli strati popolari, a cominciare dal clero intransigente, che oppone una vera e propria resistenza, con caratteri diversi il più delle volte dai fenomeni di brigantaggio meridionale. Tuttavia sono caratteri significativi da farli ricordare “ai troppi che ancora tendono a minimizzarli come episodi localistici, oggetto di curiosità di storiografi municipali destinati ad essere relegati fra le sommosse anarchicheggianti e utilitariste, capeggiate e strumentalizzate da lestofanti o da aristocratici e clericali occulti e reazionari”.(pag.54)

Il 5 capitolo fa riferimento al 1862, un anno nodale per l’intensità delle repressioni dell’esercito del Regno d’Italia sui civili. In questo anno i latifondisti acquistano molto e si arricchiscono, mentre i braccianti agricoli si impoveriscono e così molti giovani si diedero alla macchia anche per sfuggire alla coscrizioni obbligatoria entrando, per necessità o per combattere gli invasori piemontesi, nelle bande di campagna. Secondo Romano occorre esaminare attentamente il fenomeno isolano del banditismo: “da un lato i contadini poveri esasperati uniti ai piccoli proprietari disingannati da un fisco mai tanto esoso, e dall’altro, gran parte di quanti, riuniti in bande, spronavano la povera gente alla rivolta sociale e politica. In tutti vi era il sistematico rifiuto della coercizione derivata dall’unificazione e la palese delusione rispetto alle speranze e alle illusioni del 1860”.

Pertanto, mettere in luce queste cose, “non mira a donare un’aureola romantica alle bande dei briganti siciliani, tende solamente ad evidenziare come certi mali antichi si moltiplicarono anche esponenzialmente, al punto che una ingente massa di uomini, e in qualche caso anche di donne, si organizzarono, con l’aiuto delle popolazioni indigene, in cima a montagne aspre e inaccessibili, per far fronte alla feroce persecuzione poliziesca che travalicava il mantenimento dell’ordine pubblico divenendo, assai spesso, licenza deliberata e violenta gratuita a spese, non solo dei briganti, ma anche delle popolazioni e financo dei bambini inermi”. (pag. 75)

Il nuovo Stato unitario, attraverso i prefetti venuti da Torino, è incapace di comprendere le tradizioni, i costumi, la psicologia, la religiosità del popolo siciliano, inoltre ancora più grave è quell’idea folle di voler esportare e imporre un modello impossibile per i siciliani, quello del vecchio Regno Sardo. Il professore Romano tranquillamente ammette che il brigantaggio siciliano si sovrapponeva in modo nuovo dopo l’unità alla delinquenza comune, raggruppando renitenti, scontenti, reduci di azioni oppositive al nuovo governo locale e nazionale, sradicati, ma anche ex soldati e impiegati del passato regime borbonico…”.(pag. 76)

Il 17 agosto, Palermo e tutte le provincie della Sicilia furono dichiarate in stato di assedio. Il 28 agosto tocca a Catania, “si intima di non portare armi in città e che in caso di tumulto, chi fosse arrestato con le armi indosso sarà fucilato”. Interessante la rivolta popolare che scoppiò a Castellamare del Golfo, cittadina della provincia di Trapani. Una insorgenza contro “le tasse esose e la leva obbligatoria, schierata ad affrontare il comune nemico, raffigurato da rappresentanti militari e civili del nuovo stato, visti come oppressori decisi a tutto”.(pag.80)

Per sedare la rivolta il Sottoprefetto di Alcamo chiese rinforzi a Palermo che mandò due navi da guerra pieni di soldati. Tra i giustiziati va ricordata Angela Romano, una bambina di appena nove anni.  La repressione del generale Savona che si scagliò contro i renitenti di Castellamare, Alcamo e Monte San Giuliano, fu giudicata un “un bene per la Patria, per far uscire la Sicilia, “dal ciclo che percorrono tutte le nazioni dalla barbarie alla civiltà”. In questo capitolo si accenna ai fatti di Fantina, in provincia di Messina, vicino Barcellona, dove alcuni sbandati volontari garibaldini, trovano rifugio nel piccolo centro agricolo, un 

reparto militare al comando del maggiore Giuseppe C. De Villata, li cattura e subito dichiarandoli disertori li fucila. Secondo mio fratello, i volontari di Fantina sono morti probabilmente senza percepire il motivo. Sull’eccidio di Fantina, Antonio Ghirelli scrisse: “l’episodio di Fantina rimase del tutto sconosciuto alle cronache ufficiali del risorgimento italiano(…)mentre avrebbe dovuto suggerire severe riflessioni sulla ferocia con cui i vincitori imposero la loro legge nel Mezzogiorno, tanto nei confronti del ‘brigantaggio’ più o meno filoborbonico, quanto e forse ancor più rigorosamente rispetto agli esponenti del Partito d’Azione, ai volontari garibaldini e agli affiliati alla Giovane Italia”

L’INSORGENZA PALERMITANA DEL “SETTE E MEZZO” DEL 1866. UNA STORIA POCO CONOSCIUTA.

Così come il 1862 anche il 1863 si caratterizza all’insegna della repressione degli stati d’assedio e delle nuove tasse. L’anno finanziario si chiude con deficit di 446.000.000 che il Tesoro cercò di colmare ricorrendo al prestito forzoso, con nuove tasse e pesanti balzelli. Sembra l’Italia di oggi dell’era Monti-Napolitano. L’Italia prima del 1860 era il museo delle arti, ora è diventato il museo delle tasse. Dal 1860 al 1862, la Sicilia ha subito un’autentica “spremitura”, senza contraccambi per la Sicilia, anche attraverso i “contributi diretti”. Le quote individuali di contribuzione fiscale dell’erario passarono da 18 lire annuali al 4 aprile 1860, a 48 lire con il nuovo Regno, con un aumento del 166%”.

Giuseppe Marino descrive il 1862, un paradosso della libertà illiberale per la Sicilia. Sostiene che “dal 1862, la Sicilia era stata praticamente governata con lo stato d’assedio, col bell’effetto di un crescendo delinquenziale che a sua volta provocava un crescendo di interventi repressivi (…)Le pagine dei giornali ed opuscoli del tempo sono piene di denunce contro la crudeltà delle autorità governative e di polizia. Rispetto al passato borbonico, scriveva qualcuno, la libertà aveva marciato a ritroso”. (pag.94)

In questo periodo il generale Govone chiese e ottenne dal Governo centrale l’autorizzazione a mettere “ordine” in Sicilia, cominciò con Caltanissetta, accerchiandola. Tutti coloro che fossero stati incontrati nella campagna e nei paesi “dall’età apparente del renitente o col viso dell’assassino”, sarebbero stati arrestati. A Licata, il 15 agosto 1863, il maggiore Frigerio, comandante di un battaglione di fanteria, intimava alla popolazione che “se l’indomani alle ore 15 non si fossero costituiti i renitenti e i disertori, avrebbero tolto l’acqua, e ordinato che nessuno potesse uscire di casa sotto pena di fucilazione e di altre misure di più forte rigore”. Una ordinanza a dir poco barbara. Si sono verificati altri casi terribili in Sicilia in quell’anno come quello che è successo al sordomuto palermitano Antonino Cappello. Il poveretto ritenuto renitente alla leva, poiché si riteneva fingesse non parlando, furono inflitte 154 bruciature di ferro rovente in tutto il corpo. “Il suo aguzzino – scrive Romano – degno di un persecutore in un gulag o in un lager del XX secolo – fu il medico divisionale del Corpo Sanitario Militare Antonio Revelli, poi insignito dall’Ordine sabaudo dei santi Maurizio e Lazzaro”. (pag.99)

In poco più di un anno furono ben 154 i comuni circondati e posti in stato d’assedio e poi perquisiti, lo scrive Giancarlo Poidomani, su 20.000 renitenti, vennero arrestati 4.000. Il libro di Romano ne descrive alcuni, il 26 agosto quello di Salemi, ci pensa il 48° Reggimento Fanteria del maggiore Raiola, che cinse la città per tre giorni, chiudendo l’acqua potabile. “Si ricercano i renitenti e, in assenza, si arrestano madre, padre, sorelle, fratelli, che legati come malfattori o galeotti sono trascinati in carcere. Si arresta senza discernimento. Si arrestano i parenti sino nei più lontani gradi, gli amici e chi niente ha in comune col renitente ma che lo vide nascere”. (pag. 104). Le varie operazioni militari che miravano a controllare il territorio nelle province di Palermo, Trapani e Girgenti, portarono all’arresto dei facinorosi, dei disertori e renitenti, con eventuali rappresaglie sulle famiglie. Tra le tante disposizioni emanate, “si può leggere questa perla di ‘diritto’ – scrive Romano – ‘L’autorità politica ha prescritto che ogni cittadino assente dal proprio comune sia munito di una carta di circolazione. Tutti coloro che alla distanza di un chilometro dal paese ne saranno trovati sprovvisti verranno arrestati, né si rilasceranno prima che il Sindaco alla presenza del Delegato di Sicurezza Pubblica e del Comandante la stazione dei R. Carabinieri abbia assicurazioni sulla loro moralità”. (pag.115) Questa è la sublime libertà che i nuovi giacobini venuti dal Nord, hanno regalato ai siciliani che erano soggiogati dalla presunta tirannia borbonica.

Una dichiarazione di un insospettabile, Francesco Crispi, scrivendo a Garibaldi, dichiara: “Ho visitato le carceri e le ho trovato piene di individui che ignorano il motivo per cui sono prigionieri. La popolazione in massa detesta il governo d’Italia”.

L’VIII capitolo del libro, Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere, del professore Tommaso Romano, lo dedica all’insorgenza palermitana del “Sette e mezzo” nel 1866. Per Romano la rivolta palermitana del Sette e mezzo è sicuramente l’insorgenza popolare corale più importante del decennio 1860/70 che coinvolse e sconvolse la provincia di Palermo nel settembre 1866, con taluni focolai di manifesto dissenso antigovernativo in altre provincie della Sicilia occidentale. Il professore Romano ribadisce che in Sicilia come nel resto del Meridione, c’era in atto una strisciante guerra civile che non ha risparmiato quasi nessun centro, grande e piccolo dell’isola. Il nuovo potere non incontrò il consenso e l’entusiasmo popolare, anche se all’inizio seppur in modo non maggioritario, soprattutto i contadini avevano creduto in Garibaldi, considerandolo quasi un novello redentore, distributore di ricchezze a poco prezzo. “Gli eccidi fraterni fra le parti del processo rivoluzionario in Sicilia, e cioè i garibaldini e i governativi, fecero uscire molti dall’incantamento e prevalse così il realismo(…)”Alla fine oppositori, renitenti e disertori si unirono a fuorilegge che poco o nulla avevano in comune con questi e che tuttavia l’ansia per una supposta ‘giustizia’, orientava verso bande armate”.

Il brigantaggio siciliano fu un fenomeno complesso, quasi sempre liquidato come criminale e mafioso sic et simpliciter. A inizio di luglio del 1866, addirittura, si era formato un Comitato per l’insurrezione col fine di rimettere sul trono di Sicilia Francesco II, anche se per comodità strategica i suoi componenti si mimetizzavano spacciandosi per repubblicani. Per Romano, occorre tenere presente nello scenario che prepara il movimento insurrezionale del Sette e mezzo anche altri protagonisti come gli ex garibaldini, i mazziniani-repubblicani, radicali, intellettuali anarchici, socialisti, regionisti con componenti autonomiste e separatiste, mentre nel mondo cattolico, molti vescovi e buona parte del clero e degli Ordini religiosi intransigenti che seguivano l’insegnamento e gli ammonimenti controrivoluzionari del Papa Pio IX e del suo braccio dottrinale, la Civiltà Cattolica.

Tra le varie cause fondanti della rivolta del “Sette e Mezzo, secondo Romano vi fu certamente la legge Siccardi, famigerata per la soppressione degli Ordini religiosi, conventi, Confraternite, che applicata all’isola, ha provocato forte sdegno tra la popolazione. Infatti la legge del 7 luglio non faceva che favorire l’ascesa della nuova borghesia rapace per la vendita di beni ecclesiastici a prezzi irrisori, ma proibitivi per impiegati e contadini”. 

LA CHIESA VIENE SPOGLIATA DEI SUOI BENI.

Ricordo che sto leggendo il libro di Tommaso Romano, Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere, edito da Isspe. Prima della rivolta di Palermo occorre ricordarne altre come quella del 19 marzo 1866 di Canicattì, poi quella di Monreale, dove i rivoltosi esibivano come loro simbolo il Crocifisso, il ritratto di Francesco II, del Papa, bandiere gigliate e tricolori senza stemma sabaudo. Altri centri insorsero come Villabate, Bagheria, cruenta l’insurrezione di Misilmeri a pochi chilometri da Palermo, qui i rivoltosi gridavano Bedda Matri, viva la religione, Viva S. Giusto. Dal 22 settembre al 2 ottobre si svolsero ad Adernò (l’odierna Adrano)le cosiddette cinque giornate. Infine, altre rivolte a Santa Maria dell’Ogliastro, Villafrati, Bisacquino, Piana dei Greci e tanti altri centri. “Comune a tutti gli insorti era quindi il nemico principale contro cui insorgere e contro cui ribellarsi e che il popolo, senza tante disquisizioni ideologiche o istituzionali, sentiva come il morso impellente che l’attanagliava, insieme alla nuova povertà frutto anche di un liberalismo economico e centralista che privilegiava solo i possessori di capitali, i grandi manovratori di interessi, gli usurai che pure erano attivissimi, i nuovi capitalisti alleati con gli inglesi anche in Sicilia, trasformisti che da repubblicani e federalisti, come Crispi, si ‘scoprirono’ monarchici e unitaristi”. (pag.127)

Occupiamoci della rivolta del “Sette e Mezzo” a Palermo, il generale Cadorna ammise che dal momento dell’inizio della rivolta “le bande siano rimaste padrone della città, eccettuato il forte di Castellamare, il carcere, le finanze, il palazzo reale ed il palazzo di città, che restarono sotto il controllo dell’autorità militare”. Le principali vie di Palermo erano in mano gli insorti. “Scontri violenti si svolsero in quei giorni fra gli insorti e le truppe di Masi, Angioletti e Riboty (quest’ultimo alla testa dei marinai) particolarmente nella zona dell’Orto Botanico, di Piazza Marina, dei Quattro Canti di Campagna. Dal convento di San Francesco di Paola si aprì il fuoco contro i governativi – scrive Romano – al comando del generale Cadorna per sedare la rivolta, gli effettivi raggiunsero la quota di 40.000 uomini. Inoltre, la città fu cannoneggiata dalle navi della Regia Marina ed anche da una nave inglese (!) presente nel porto di Palermo”. (pag.143)

In quei giorni a Palermo ci fu una guerriglia vera e propria, “la città fu un campo di battaglia, con larga partecipazione di tutti i ceti sociali alla rivolta, ma con preponderanza del ceto popolare e con significativa presenza di religiosi, lo stesso Cadorna attesta infatti che ‘parecchi frati hanno preso parte nei combattimenti, in mezzo alle squadre di malandrini”. Continua Romano: “gli insorti gradavano indifferentemente nelle strade viva la Repubblica, evviva Santa Rosalia e i monasteri, Evviva Francesco, innalzando bandiere rosse e bianche, il crocefisso e gli stendardi delle Confraternite defraudate dalle leggi avversive”. (pag.145) L’ideologo della rivolta secondo Romano fu monsignor Gaetano Bellavia, borbonico noto a Questure e Prefetture e poi naturalmente Vincenzo Mortillaro. Le operazioni della rivolta erano in mano a Francesco Bonafede. Alla fine della rivolta si possono contare un migliaio di morti tra i rivoltosi, mentre i caduti governativi furono circa 200, 87 feriti gravi e 142 leggeri. Dopo la rivolta si registrarono atti di brutale violenza, crudeltà e vendetta dei regi, con uccisioni indiscriminate. Il 25 dicembre il Questore di Palermo ripristinò la famigerata “carta di circolazione”, un passaporto interno, per delimitare i quartieri palermitani, oltre i quali il documento era necessario. Il professore Romano conclude il capitolo VIII, facendo parlare Salvatore Natoli e Maria Rosaria De Stefano Natoli che nel loro libro, La Nazione che non fu, scrivono: “sei anni dopo l’annessione, la situazione siciliana di quel momento ha molte analogie con le guerre di insurrezione della Vandea e la rivolta del Sette e Mezzo ha molti punti in comune con la battaglia di Savenay specie nelle cause; anche il fatto scatenante è l’obbligo di leva per trecentomila francesi: è il 1793, settantatré anni prima”. Dunque le sette giornate di Palermo del 1866 non possono essere definite un episodio anarcoide o di malandrinaggio collettivo, ma sicuramente si trattò di vera Insorgenza popolare. (pag. 156)

Il libro di Romano dà molto spazio alla repressione e all’azione anticlericale del nuovo governo sabaudo piemontese. Le vere vittime della rivoluzione risorgimentista furono le case gli istituti religiosi, monaci e monache e sacerdoti.“Mai in Sicilia, scrive Maria Teresa Falzone, se si esclude il periodo della dominazione araba, vi era stata una soppressione così violenta e di così ampia portata”.

REPRESSIONE DELLE RIVOLTE POPOLARI E AZIONE ANTICLERICALE CONTRO LA CHIESA IN SICILIA.

Sto presentando il libro di Tommaso Romano, Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere, edito da Isspe. Prima della rivolta del “Sette e mezzo” di Palermo occorre ricordarne altre come quella del 19 marzo 1866 di Canicattì, di Monreale, dove i rivoltosi esibivano come loro simbolo il Crocifisso, il ritratto di Francesco II, di Pio IX, le bandiere gigliate e tricolori senza stemma sabaudo. Altri centri insorsero come Villabate, Bagheria; cruenta l’insurrezione di Misilmeri a pochi chilometri da Palermo, qui i rivoltosi gridavano Bedda Matri, viva la Religione, Viva S. Giusto. Dal 22 settembre al 2 ottobre si svolsero ad Adernò (l’odierna Adrano) le cosiddette cinque giornate. Infine, altre rivolte a Santa Maria dell’Ogliastro, Lercara Freddi, Villafrati, Corleone, Bisacquino, Piana dei Greci, Partinico, Montelepre e tanti altri centri. “Comune a tutti gli insorti era quindi il nemico principale contro cui insorgere e contro cui ribellarsi e che il popolo, senza tante disquisizioni ideologiche o istituzionali, sentiva come il morso impellente che l’attanagliava, insieme alla nuova povertà frutto anche di un liberalismo economico e centralista che privilegiava solo i possessori di capitali, i grandi manovratori di interessi, gli usurai che pure erano attivissimi, i nuovi capitalisti alleati con gli inglesi anche in Sicilia, trasformisti che da repubblicani e federalisti, come Crispi, si ‘scoprirono’ monarchici e unitaristi”. (pag.127)

Ritorniamo alla rivolta del “Sette e Mezzo” a Palermo, il generale Cadorna ammise che dal momento dell’inizio della rivolta “le bande siano rimaste padrone della città, eccettuato il forte di Castellamare, il carcere, le finanze, il palazzo reale ed il palazzo di città, che restarono sotto il controllo dell’autorità militare”. Le principali vie di Palermo erano in mano gli insorti. “Scontri violenti si svolsero in quei giorni fra gli insorti e le truppe di Masi, Angioletti e Riboty (quest’ultimo alla testa dei marinai) particolarmente nella zona dell’Orto Botanico, di Piazza Marina, dei Quattro Canti di Campagna. Dal convento di San Francesco di Paola si aprì il fuoco contro i governativi – scrive Romano – al comando del generale Cadorna per sedare la rivolta, gli effettivi raggiunsero la quota di 40.000 uomini. Inoltre, la città fu cannoneggiata dalle navi della Regia Marina ed anche da una nave inglese (!) presente nel porto di Palermo”. (pag.143)

In quei giorni Palermo fu teatro di una guerriglia vera e propria, “la città fu un campo di battaglia, con larga partecipazione di tutti i ceti sociali alla rivolta, ma con preponderanza del ceto popolare e con significativa presenza di religiosi, lo stesso Cadorna attesta infatti che ‘parecchi frati hanno preso parte nei combattimenti, in mezzo alle squadre di malandrini”. Gli insorti gridavano indifferentemente nelle strade viva la Repubblica, evviva Santa Rosalia e i monasteri, Evviva Francesco, innalzando bandiere rosse e bianche, il crocefisso e gli stendardi delle Confraternite defraudate dalle leggi avversive”. (pag.145) L’ideologo della rivolta, secondo Romano, fu monsignor Gaetano Bellavia, borbonico noto a Questure e Prefetture e poi naturalmente Vincenzo Mortillaro. Le operazioni della rivolta erano in mano a Francesco Bonafede. Alla fine della rivolta si contarono un migliaio di morti tra i rivoltosi, i caduti governativi invece furono circa 200, 87 feriti gravi e 142 leggeri. Dopo la rivolta si registrarono atti di brutale violenza, crudeltà e vendetta da parte dei regi, con uccisioni indiscriminate. Il 25 dicembre il Questore di Palermo ripristinò la famigerata “carta di circolazione”, un passaporto interno, per delimitare i quartieri palermitani, oltre i quali il documento era necessario.

A conclusione del capitolo VIII, il professore Romano fa parlare Salvatore Natoli e Maria Rosaria De Stefano Natoli che nel loro libro, La Nazione che non fu, scrivono: “sei anni dopo l’annessione, la situazione siciliana di quel momento ha molte analogie con le guerre di insurrezione della Vandea e la rivolta del Sette e Mezzo ha molti punti in comune con la battaglia di Savenay specie nelle cause; anche il fatto scatenante è l’obbligo di leva per trecentomila francesi: è il 1793, settantatré anni prima”. Dunque le sette giornate di Palermo del 1866 non possono essere ridotte a un episodio anarcoide o di malandrinaggio collettivo, certamente si trattò di vera Insorgenza popolare. (pag. 156)

Il libro di Romano dà molto spazio alla repressione e all’azione anticlericale contro la Chiesa del nuovo governo sabaudo piemontese. Le vere vittime della rivoluzione risorgimentista furono le case, gli istituti religiosi, i monaci, le monache e i sacerdoti. “Mai in Sicilia, scrive Maria Teresa Falzone, se si esclude il periodo della dominazione araba, vi era stata una soppressione così violenta e di così ampia portata”. Il nuovo regno d’Italia, attraverso leggi di spoliazione e di laicizzazione colpì pesantemente la Chiesa in Sicilia e proprio queste leggi “furono ulteriori causa di malcontento e indignazione popolare che sfociò in insorgenze vere e proprie, per ciò che si appalesava come un attentato alla fede millenaria, alla tradizione, all’identità profonda e alla stessa sussistenza che le opere di carità della Chiesa favorivano per migliaia di persone con il lavoro nelle chiese e nelle istituzioni cattoliche (circa diecimila persone solo a Palermo).

Sulla soppressione (sarebbe più esatto scrivere ladrocinio) degli istituti religiosi, il più esaustivo e mirabile studio-ricerca è quello di Salvatore Cucinotta, col suo Sicilia e Siciliani. Dalle riforme borboniche al rivolgimento piemontese. Soppressioni (Edizioni Siciliane, Messina, 1996). “Un volume di oltre settecento pagine ignorato dagli storici conformisti che nonostante abbia veramente colmato una grave lacuna risulta tuttavia assai difficile da reperire”. Molti anni fa ne ho visto una copia da padre Giuseppe Tatì a S. Alessio.

Il 18 febbraio del 1861, Vittorio Emanuele II, ai 47 deputati siciliani ricordò la necessità di nuovi fonti finanziarie, che significava che “non solo si attingeva alle riserve auree copiose sottratte dall’ex Regno delle due Sicilie, ma si puntava al cuore delle casse e del vasto patrimonio della Chiesa per armare lo Stato, imporre la lunghissima e costosa coscrizione obbligatoria, onde usarla contro i briganti e i legittimisti del Sud”. (pag. 180) Non solo ma la finalità del nuovo Regno, secondo molti suoi autorevoli esponenti, era la completa laicizzazione dell’Italia; per Romano, ma anche per tanti altri studiosi e storici obiettivi, si puntava dritti al cuore della Cristianità, per disintegrarla e poi annientarla. Non sarà inutile ricordare che nel 1860 ben sessanta vescovi furono cacciati dalle loro diocesi nel Meridione perché accusati di legittimismo filo-borbonico e che, nel 1863, finirà in carcere per aver difeso i diritti del Papa Pio IX, il vescovo di Spoleto Giovanni Battista Arnaldi. Destino che toccherà nel 1867, anche al vescovo di Monreale, Benedetto D’Acquisto”. Con le leggi sulla soppressione- cancellazione di tutti gli ordini religiosi, secondo il Cucinotta, furono calpestati i principi del diritto naturale, dello Statuto e del Codice Civile (…)L’obiettivo era -sempre secondo Cucinotta – di azzerare quel tessuto socio-religioso che per secoli, in unità di libero e gratuito servizio, aveva unito il laicato e il mondo religioso, per cui con le soppressioni, in Sicilia non vi è più storia della Chiesa come storia della società”. (pag. 188)

Il presente studio era stato proposto ai lettori in cinque puntate. 

Rozzano MI, 30 marzo 2012

 S. Leonardo Murialdo sacerdote.                                                         DOMENICO BONVEGNA

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