LA “NUOVA” ITALIA CONTRO LA “VECCHIA” ITALIA.

 BISOGNAVA “FARE” L’ITALIA O C’ERA GIA’ FIN DAL MEDIOEVO…
Sto leggendo il testo di Massimo Viglione, insegnante di Storia moderna e Storia del Risorgimento presso l’Università Europea di Roma, pubblicato quest’anno dalla casa editrice Ares di Milano (www.ares.mi.it  – il testo è1861. Le due Italie, sottotitolo: “Identità nazionale, unificazione, guerra civile”. (424 pagine, 20 euro)

Il volume è suddiviso in tre parti, documentatissimo e ricco di citazioni, ci sono 17 pagine di bibliografia e ben 55 pagine di note.
Fatta l’Italia, restano a fare gli Italiani”, diceva Massimo D’Azeglio. Ma si chiede Viglione nell’introduzione: “sono stati fatti gli italiani in questi 150 anni? E soprattutto, gli italiani ‘si fanno’? O ci sono? E i 22 milioni di individui in quei giorni abitanti la Penisola e le isole oggi componenti l’Italia, che cosa erano se non erano italiani? O forse erano loro i veri italiani? Insiste Viglione. In questo caso, di quale ‘italiano’ parla D’Azeglio? Evidentemente di un diverso italiano, di un italiano da cambiare, da modificare nella sua secolare italianità, di un ‘nuovo italiano’ con una nuova identità per una ‘nuova Italia’”.

E’ la grande sfida del Risorgimento italiano, che Viglione chiama Rivoluzione Italiana, che ha visto impegnati tutti i governi, da quelli liberali del regno d’Italia di Vittorio Emanuele a quello fascista del ventennio, agli anni della repubblica italiana del dopo 1945. E allora “ci sono riusciti i nostri governanti in questi 150 anni, ognuno al proprio turno, a fare ‘l’italiano nuovo’? E, se si, anche parzialmente, ci è convenuto? Dobbiamo festeggiare?”

Per dare una risposta seria e non demagogica alla questione, il libro di Viglione ci invita a ripensare con serenità e onestà intellettuale, “l’intera parabola ideologica e storica del Risorgimento e capirne a fondo le conseguenze subite dagli italiani nel XX secolo, fino a oggi”.

Nella prima parte, Viglione sostiene che il movimento unitarista mirava a costruire una “nuova Italia”, con una nuova identità nazionale, radicalmente differente da quella cattolica e tradizionale dei secoli precedenti, successivamente poi l’autore dimostra che l’unificazione politica del popolo italiano aveva un valore strumentale e non finale.

Esiste un’identità italiana? Si esiste e la risposta ha una sicurezza oggettiva. La nostra identità è la più antica e la più definita, rispetto a tutta alla civiltà occidentale. Quali sono gli elementi essenziali di questa identità? Sono vari, ma certamente poggiano sull’ereditarietà di due epoche ultramillenarie, il cui valore non è affatto nazionale bensì del tutto universale: l’eredità romano-pagana (con la sua idea imperiale) e l’eredità romano-cristiana ( con la sede del Vicario di Cristo presente da venti secoli nella penisola). In entrambi i casi, la città di Roma rappresenta la culla della civiltà occidentale, diventa un’idea universale per eccellenza, eredità universale per antonomasia, città universale appartenente a ogni uomo che si richiami ai suoi valori religiosi e civili. Soltanto dopo il 1870 in poi Roma diventa capitale di uno Stato nazionale di mediocri dimensioni.

La storia italiana secondo il professore Viglione si muove tra due poli: universalismo particolarismo. Un concetto estraneo alla sua storia millenaria è quello dell’unitarismo. “Mai l’Italia fu amministrativamente e politicamente unita dalla preistoria al 1861”, neanche al tempo dei secoli di storia romana; Roma fu unita sempre dall’universalità: Ancora oggi Roma si presenta come l’unico caso al mondo in cui nella stessa città vivono due Stati, ed entrambi hanno come capitale Roma”. Il libro di Viglione insiste nella tesi che l’identità nazionale degli italiani sia debitrice all’azione secolare svolta dalla Chiesa romana, che è stata sempre al centro della penisola, donando alle popolazione italiane, civiltà, ordine, diritto, lingua, cultura, mentalità e potere.

L’unico elemento davvero “italiano”, è quello del cattolicesimo, lo hanno anche ribadito autori non cattolici, l’identità della società italiana preunitaria è stata forgiata dalla Chiesa cattolica che ha impregnato “fino al midollo” la sua religione, la morale, la visione della vita. Del resto,“Non possiamo non dirci cristiani” diceva Benedetto Croce.

A questo punto visto che la religione e la Chiesa cattoliche erano l’anima dell’italianità, ma anche l’unico elemento unificante delle popolazioni preunitarie, sarebbe stato logico – per Viglione – ritenere che proprio su tale elemento si sarebbe dovuto far leva per costruire un processo di unificazione nazionale statuale di tali popolazioni”. Del resto uno dei fattori essenziali di identità di un territorio, di un Paese, sono sempre stati la religione, la lingua e l’etnia. Ma i fautori del risorgimento unitarista italiano non la pensarono così, la Chiesa cattolica, per loro era il nemico numero uno della futura Italia laica e liberale. La Chiesa era per loro il veleno da depurare nell’animo degli italiani. Non sto esagerando, il libro di Viglione evidenzia con documenti alla mano e numerose citazioni dei protagonisti come il Risorgimento fu un movimento nella sua essenza anticattolico e nemico della Chiesa di Roma”. 

Dunque gli italiani erano da fare, e proprio nella frase provocatoria di D’Azeglio che secondo Viglione, si racchiude tutta la problematica della Rivoluzione Italiana. Così, dopo aver imposto l’unificazione rinnegando la millenaria identità italiana in nome di una strada nuova, antitetica alla tradizionale civiltà italica, una ristretta élite di italiani, gli “eletti”, l’1%, scelsero di rinnegare e distruggere l’Italia “vecchia”, della maggioranza degli italiani (99%), quella vera, che c’era già, in nome della “nuova Italia”. “Vale a dire – scrive Viglione – un’Italia non più universale, non più cattolica, di lì a ottant’anni neanche più monarchica, insomma, non più ‘romana’ e, quindi, non più ‘italiana’ nel senso identitario preunitario”. Insomma occorreva, ripartendo da zero, creare una “seconda Italia”, al fine di cancellare la prima.

Quanto scrive l’autore è dimostrabile da tante affermazioni, sia dei protagonisti di quei giorni, sia dagli storici ufficiali del risorgimento. Il libro, naturalmente fa riferimento alla figura a volte misteriosa di Giuseppe Mazzini uno dei “padri della Patria”, un vero sacerdote dell’antireligione ma anche il teorico del pugnale, che plagiava decine di giovani, spingendoli fino al suicidio collettivo, in pratica mandandoli allo sbaraglio, a morire, pur sapendo di non avere nessuna speranza di far sollevare il popolo italiano che non ne voleva sapere delle idee rivoluzionarie dei vari fratelli Bandiera, dei martiri di Belfiore, dei vari Pisacane e compagni. “(…)manipoli di esaltati che presumevano di rovesciare da soli regni e sovrani, per finire immancabilmente trucidati o comunque arrestati”.

       LA FARSA DEI PLEBISCITI.

 Una domanda interessante si pone l’autore: quanti su 22 milioni di italiani del XIX secolo, avevano coscienza reale e volontà effettiva di unificare politicamente la Penisola abbattendo per sempre i secolari legittimi governi in cui vivevano? La risposta è pochi eletti”, l’1 per cento della popolazione. E ancora, quanti dei sette milioni di abitanti del Regno delle Due Sicilie (eccetto i fratelli Spaventa, Settembrini, Ricciardi e qualche decina di carbonari) si sentivano “italiani” come l’intendevano i cosiddetti patrioti anziché napoletani, o siciliani, calabresi etc. La realtà è che i grandi attori della Risorgimento italiano non volessero “fare l’Italia” in piena sintonia con la sua secolare identità, storia, civiltà, bensì volevano fare una “nuova Italia” su basi centralistiche e stataliste simili alla nazione francese nata dalla rivoluzione dell’89.

Il braccio sinistro della Rivoluzione Italiana è stata la Massoneria, è difficile negare il ruolo centrale che hanno avuto le associazioni massoniche locali e straniere nel Risorgimento. La Carboneria, la Giovine Italia, erano direttamente filiazioni massoniche. Massoni sono stati la maggior parte dei protagonisti della Rivoluzione Italiana. Del resto gli stessi Papi non hanno mai smesso di di condannare la Massoneria come ispiratrice della guerra alla Chiesa cattolica e del Risorgimento stesso. Del resto il fine della massoneria e quindi dei risorgimentisti era di sostituire alla religione e alla Chiesa cattolica una nuova religione, quella della patria risorgimentale.

Nella 2 parte del testo Massimo Viglione affronta i fatti che hanno caratterizzato la Rivoluzione risorgimentista, partendo dalla data fondamentale del 1796una data di cui nessuno o quasi sa nulla e che invece svolge un ruolo d’importanza capitale, molto più del 1848, del 1861, del 20 settembre 1860, del 1915-18, del 1922, anche dell’8 settembre ’43, e poi del ’45, del 18 aprile 1948 e così via. Per Viglione il 1796 sta all’Italia come il 1789 sta alla Francia. La differenza è che i francesi esaltano (o pochi condannano) il loro 1789, noi invece abbiamo perduto la memoria di quell’anno, ricordato solo dagli esperti in materia nei loro libri e nei loro disertati convegni.

Nel 1796, c’è stata l’invasione degli eserciti francesi di Napoleone e con loro l’importazione della Rivoluzione francese, imposta con le baionette, i cannoni, le stragi, i furti e le profanazioni delle Chiese. “E’ l’anno della nascita delle repubbliche giacobine e democratiche, sorte sulle spoglie degli antichi tradizionali Stati monarchici e aristocratici, comunque cristiani, della formazione di una aperta e perseguita coscienza rivoluzionaria, laica e repubblicana, nelle élites del nostro paese”. Ma è anche  l’anno in cui inizia la grande Insorgenza Controrivoluzionaria di  tutto il popolo italiano dalle Alpi alle Calabrie, il più grande, drammatico ed eroico ( e ancora oggi poco conosciuto) evento della storia degli italiani. Talmente drammatico ed eroico che lo si è cancellato dalla memoria collettiva, in quanto sgradito alla ideologia del Risorgimento; ed è per questo che nessuno coglie veramente fino in fondo l’importanza del 1796”. Il 1796 secondo Viglione, è l’inizio della “nuova storia” degli italiani, è l’”anno del prima e del poi”, per noi italiani, rappresenta, lo spartiacque della nostra civiltà. In pratica, è l’inizio della modernità in Italia. E’ chiaro che qui non possiamo approfondire la questione, rinvio alla lettura di alcuni ottimi testi dello stesso Viglione e di altri storici che a partire dal 1990 hanno svolto un’appassionante opera di ricerca poi convogliata nell’Istituto Storico per l’Insorgenza e per l’Identità nazionale (www.identitanazionale.it).

 Nel 1796 iniziò la Rivoluzione Italiana: “un uragano storico-politico-militare, nonché anche specificamente religioso, si abbattè sulla Penisola dopo secoli di pace, portando con sé una grave eredità: la divisione e l’odio ideologico”. E’ importante questo aspetto, gli italiani erano in pace da quasi tre secoli, non avevano mai conosciuto l’odio ideologico, anche se erano divisi geopoliticamente, ma erano uniti nello spirito delle identità di vedute, credenze e tradizioni. 

Dal 1796 non si è più “italiani”e basta, ma giacobini o insorgenticattolici o massonirepubblicani o monarchicidemocratici o conservatori, etc. Per Viglione in pratica è l’inizio della “guerra civile italiana”, per l’esattezza della prima guerra civile, poi ci sarà quella del cosiddetto brigantaggio nel 1861 e infine la terza quella nel 43-45. A pagina 76 del libro, Viglione scrive: Napoleone non fu un ‘semplice’ invasore. Egli portò con sé, sulla punta delle baionette dei suoi soldati, le idee, le utopie e i modi di comportamento della Rivoluzione francese. Esportò insomma in Italia la Rivoluzione e lo fece con la violenza, l’occupazione, il sopruso”.

In poco tempo gli italiani si ritrovarono in casa, il giacobinismo, il repubblicanesimo rivoluzionario, la guerra, i governi legittimi sovvertiti, le chiese derubate, saccheggiati i monti di pietà, i musei, le banche, gli ospedali. Violenze e tragedie che gli italiani non avevano più vissuto da secoli. Spontaneamente tutto il popolo italiano insorse con qualsiasi arma contro gli invasori e soprattutto contro i giacobini locali, dando vita all’insorgenza controrivoluzionaria. Si tratta della più grande rivolta popolare della storia italiana, – scrive Viglione – e certamente di una delle più grandi di tutti i tempi(…) Tale insurrezione, detta Insorgenza in quanto composta da una miriade di insorgenze locali, fu ‘nazionale’ nel senso geografico del termine, in quanto si estese dalla val d’Aosta alla Puglia, dalla Calabria al Tirolo, risparmiando solo la Sicilia, ove i francesi non arrivarono mai”. Una guerra insurrezionale durata fino al 1810, che ha visto oltre 300 mila italiani di tutte le classi sociali, in particolare popolari e contadine,  prendere le armi e combattere per la Chiesa cattolica e i governi monarchici e tradizionali, ne morirono non meno di 100 mila, dall’altra parte appena qualche migliaio di uomini per lo più intellettuali. Per questo si spiega il motivo della rimozione degli storici ufficiali, chiamati i cani da guardia.

Comunque non si può giudicare la storia del risorgimento senza fare riferimento al fenomeno dell’Insorgenza controrivoluzionaria. Qualsiasi storico serio comprenderà la lacuna storica che la storiografia nazionale ha imposto agli italiani, facendo praticamente scomparire dai libri di testo, tutta questa epocale vicenda, e sostituendoli pedissequamente con continui ripetitivi studi su pochi giacobini indigeni che andarono a ballare intorno agli ‘alberi della libertà’ imposti dall’invasore, coadiuvandolo nei suoi furti, nelle sue profanazioni e nelle sue stragi”.

Sia Viglione, come altri storici, da qualche decennio, sostengono che la stragrande maggioranza del popolo italiano insorse in armi contro gli ideali laicisti di democrazia giacobina della Rivoluzione francese, pronti a morire in difesa della tradizionale civiltà cattolica, sacrale e legittimista. Inoltre occorre “costatare che i cosiddetti “protomartiri del Risorgimento”, i “patrioti” napoletani del 1799, furono impiccati proprio perché odiati da tutto il popolo, e, soprattutto, che erano solo qualche centinaio in tutto, mentre, dall’altra parte della barricata, vi furono pronti a morire per la propria patria, quella vera, non quella ideologica, non meno di 60.000 persone, che nessuno ha mai ricordato o che si sono sempre qualificate come ‘briganti’, sulla scia terminologica vandeana”. 

Mazzini, il Risorgimento e i padri del totalitarismo rosso e nero.

   Con la caduta di Napoleone, fallirono i tentativi giacobini di organizzare una “Nuova Italia” rivoluzionaria, ma non si poterono cancellare quegli ideali di sovversione politico-istituzionale connessi a quelle esperienze. Fu Giuseppe Mazziniil padre spirituale della Patria a ereditare quegli ideali e il professore Viglione nel testo che sto presentando, sviluppa una singolare tesi quella di riscontrare nel processo risorgimentale leradici dei fenomeni di totalitarismo di massa, che hanno caratterizzato la storia italiana del XX secolo. Sia del totalitarismo di stampo nazionalista e sociale che condurrà alla dittatura fascista, sia di quello rivoluzionario, radical-laicista, che condurrà prima alla guerra civile del 1943-45 e poi alla vasta diffusione delle istanze comuniste e alla lacerazione ideologica dell’Italia repubblicana (fino al terrorismo)”.

Il professore si rende conto che il tema del legame fascismo-Risorgimento, e quello con le istanze comuniste per certi aspetti è scottante. Entrambi i filoni totalitari riconducono, seppure per vie differenti, a quel mondo settario massonico italiano dell’età del Risorgimento e quindi nel primo dei “padri della patria”, Giuseppe Mazzini, il grande ispiratore del totalitarismo italiano, sia quello rosso che nero e volendo anche del terrorismo. Del resto lo avevano sempre denunciato diversi studi storici, tra cui quelli cattolici del XIX secolo come Giacinto de’ Sivo, Paolo Mencacci, Patrick K. O’ Clery o i padri de La Civiltà Cattolica.

Massimo Viglione sinteticamente ripercorre il pensiero di Mazzini, considerato un vero e proprio “sacerdote dell’umanità”, fondatore di una nuova religione panteista e gnostica che come compito primario doveva liberarsi dal cristianesimo e soprattutto dal Papato, per fondare la “terza Roma”, che dovrà sostituire quella cattolica. Addirittura Mazzini non accettava nemmeno la formula cavouriana “libera Chiesa in libero Stato”, perché per lui lo Stato sarà la Chiesa e la Chiesa sarà lo Stato. Non per niente si parla di ‘teocrazia mazziniana’. Simile alla teocrazia islamica? Così Mazzini e compagni preparano una Nuova Italia, voluta da pochi, non popolare, elitaria, contro quella Vera millenaria, autentica, cattolica. E dopo il pensiero viene l’azione, un pensiero così “utopico e di un dottrinario estremista – per Viglione – non può che far seguito una scia di sangue e di tragedie. Mazzini dopo aver plagiato questi giovani spingendoli fino al suicidio collettivo, li manda a morire per una missione senza nessuna speranza, guardandosi bene dal partecipare in prima persona.

Nel 3 capitolo della II parte il libro di Viglione si occupa della Proposta Cattolica per l’unità del Paese e non può non fare riferimento a quella più conosciuta di Vincenzo Gioberti, presentato dalla storiografia ufficiale come l’uomo nuovo dei ‘moderati’, colui che aveva compreso che non potevano essere i metodi fallimentari del Mazzini a fare l’Italia. Ma per Viglione, Gioberti un prete, ed ex mazziniano è l’uomo dell’inganno, se in un primo momento auspicava una Italia unita senza Rivoluzione. Una confederazione degli Stati preunitari con leadership del Pontefice romano, forse per addolcire i cattolici, di ‘ingraziarsi’ perfino il Papa. Successivamente Gioberti, gettò la maschera, passando senz’altro dalla parte dei democratici, soprattutto dopo il 1849, scrivendo il De Rinnovamento civile d’Italia, opera di chiara matrice rivoluzionaria e sovversiva, che rinnegava apertamente il precedente pensiero. Peraltro Viglione, presenta una lettera di Gioberti, proprio nell’anno del Primato, dove il nostro afferma che l’unione federativa della nostra Penisola e l’arbitrato del Papa sono utopie. Parole agghiaccianti, per chi conosce l’entusiasmo generale che la sua opera aveva suscitato in Italia, specie tra i moderati e i cattolici. E soprattutto dopo che addirittura lo stesso Pio IX credette alla sincerità della proposta di Gioberti. Per Viglione il Primato fu il libro degli inganni, che riuscì a disgregare come conferma Antonio Gramsci, il movimento cattolico e a togliergli la fiducia in se stesso, fu il capolavoro politico del Risorgimento, di Vincenzo Gioberti, il Mazzini dei moderati.

Il neoguelfismo di Gioberti è lo stratagemma per far passare la Rivoluzione liberale borghese sulle masse italiane che non ne volevano sapere della rivoluzione. Del resto nell’Istruzione permanente data ai membri della setta massonica nel 1817, troviamo scritto: “il nostro scopo finale è quello di Voltaire e della Rivoluzione francese: l’annientamento per sempre del cattolicesimo ed ancora dell’idea cristiana (…)Per fare questo non ci vuole qualche mese, un anno, forse degli anni, qualche secolo, “ma nelle nostre file il soldato muore, ma la guerra continua(…)”.Gioberti secondo Viglione condivideva in pieno il progetto dell’Alta Vendita.

Nel 1848, dopo la I guerra di indipendenza avviene la rottura con il mondo cattolico e la possibilità che ci sia una vera unità degli italiani nel rispetto dell’identità del popolo italiano. Nella I guerra di indipendenza, almeno nella prima fase “si realizzò– per il professore Viglione – il momento migliore dell’intera storia nazionale degli ultimi due secoli: un’unione ideale vera fra una buona parte degli italiani”. Il progetto venne fatto fallire miseramente, nel 1848 si decise “la scelta di campo” – scrive Viglione – se avesse vinto il progetto neoguelfo, sarebbe nata un’Italia confederativa cattolica e monarchica, decentrata e tradizionalista, che avrebbe senzìaltro riscosso il consenso massiccio delle popolazioni italiane (proprio ciò che mancava a Mazzini e ai vari settari), legate ai loro legittimi sovrani: insomma, la ‘vera Italia’, ‘universale’ in quanto cattolica, decentrata in quanto confederativa, monarchica e sacrale, opposta alla ‘nuova Italia’, voluta dalle élite rivoluzionarie. Per Viglione, occorreva assolutamente mandare a monte il progetto neoguelfo, a costo di far vincere l’Austria. E così fu fatto”.

Nel 4 capitolo il libro sfata alcuni pregiudizi, la vulgata nei confronti degli Stati preunitari, in particolare, quello riguardante il Regno delle Due Sicilie e poi dello Stato Pontificio. Conquistati, meglio scrivere aggrediti, manu militari, una inequivocabile operazione politico- militare di aggressione a legittimi e secolari Stati amici e pacifici da parte del Re di Sardegna. Naturalmente, “per giustificare tutto questo dinanzi ai contemporanei e alla storia, occorreva creare le condizioni morali che rendessero apprezzabili tali operazioni”. Così venne fatto credere agli italiani e alle Potenze straniere, “che quegli Stati erano infami e corrotti, oppressivi e incivili, e pertanto l’azione cavouriana-garibaldino-piemontese era non solo giustificabile, ma costituiva un’azione di civiltà e generosità”. La guerra rivoluzionaria di Casa Savoia e tutto il movimento unitario doveva apparire come un inevitabile soccorso a popolazioni che languivano in stato di miseria e schiavitù e non attendevano altro che l’aiuto del re sabaudo. Ma sulla “leggenda nera” degli Stati preunitari molto si è scritto e ormai forse non ci crede più nessuno. Rimando i lettori agli scritti di Carlo Alianello, ma soprattutto a  un’ottima opera di Patrick Keyes O’ Clery, La Rivoluzione Italiana. Come fu fatta l’unità della nazione (I ed. 1875-1892),Ares, Milano 2000

 

Basta con la vulgata risorgimentista scriviamo la verità sui Regni preunitari.

  Le due vittime designate dalla Rivoluzione Italiana, cioè il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio. Due Stati per quei tempi abbastanza floridi, ricchi, con tante riforme alle spalle, sia dal punto di vista economico che culturale, al contrario del piccolo Piemonte che mirava a riunificare il Paese ed era il più indebitato tra tutti gli Stati preunitari. Dal 1848 al 1860 (gli anni rivoluzionari di Cavour) il debito arrivava a oltre un miliardo. Per l’esattezza 1.024.970.595 lire. Una cifra astronomica che non risente ancora delle spese per l’unificazione. Scrive Viglione, negli stessi anni il bilancio dello Stato Pontifico raggiunge il pareggio effettivo (1858), mentre quello del regno delle Due Sicilie è in attivo. 
 Nonostante questa situazione, si fece a gara nel descrivere questi Stati come delle mostruosità intollerabili, specie quello Pontificio e il Regno delle due Sicilie. “Era quindi necessario l’intervento del grande e progredito fratello piemontese, a sua volta aiutato dalla grande e benevola madre britannica, a portare la luce della civiltà a quelle sventurate popolazioni (anche se in realtà esse non avevano mai chiesto nessun aiuto e intervento esterno; anzi, già ai tempi di Napoleone, avevano perfettamente dimostrato, armi alla mano, la propria fedeltà ai governi papale e borbonico).
 Celeberrima è l’espressione di Lord Gladstone, ministro del governo Palmerston (il “grande fratello” del Risorgimento italiano), per definire il governo borbonico: “la negazione di Dio”. Frase aberrante che fece il giro del mondo.
 Viglione nel testo oppone alle falsità della vulgata ufficiale, ampia documentazione tratta ormai dalla ricca bibliografia che attesta l’effettiva civiltà, il concreto progresso e il reale benessere raggiunto dalle popolazioni italiane degli Stati preunitari. “E’ facile  – scrive Viglione – sia perché si tratta di dire la semplicemente la verità, sia perché ormai non pochi fra gli storici risorgimentisti più seri da tempo non hanno più ‘l’animo’ di continuare a far finta di credere ai peana della vulgata e hanno iniziato una seria revisione e ripresentazione generale dell’intera situazione, specie per quel che riguarda proprio il governo borbonico”.

 Viglione è ottimista ma ancora in certi storici persiste il vezzo di raccontare “favole” sul risorgimento, come nel programma di Rai 2 condotto da Piero Angela, dove un certo Barbera continua imperterrito a raccontare palle. Ma non scherza neanche il nostro(?) presidente Napolitano.
 Il professore Viglione accenna soltanto ad alcune “conquiste” o “barbarie” del Regno borbonico, a cominciare dello sfarzo e della bellezza della Reggia di Casertasecondo palazzo reale al mondo per grandezza e bellezza; e poi numerose strade, ponti, porti, la flotta navale, la prima in Italia, seconda in Europa soltanto a quella inglese. Attività industriali, come la scuola per gli arazzi, la produzione di porcellane di Capodimonte, Università, Accademie, gli scavi di Ercolano e Pompei. Viglione si concentra soprattutto sulle riforme sotto Ferdinando II, il sovrano più illuminato degli Stati italiani, sotto il suo regno, il Meridione d’Italia raggiunse il massimo livello di ammodernamento e civiltà. Nel 1762 venne costruito a Napoli il primo cimitero in Italia e poi quello di Palermo. Nel 1768 stabilì una scuola gratuita per ogni Comune del regno e per ambo i sessi, ordinando che nelle case religiose si facesse altrettanto. Nel 1818 salpò da Napoli la prima nave a vapore italiana. “Molto altro vi sarebbe da dire – scrive Viglione – Ferdinando fu la massima e più completa espressione di quel riformismo politico e sociale, inaugurato dal suo bisnonno Carlo, e che caratterizzò sempre la Real Casa di Borbone delle Due Sicilie”. 

 Dopo i borboni, il professore elenca alcune delle “barbarie” papiste. “Lo Stato Pontifico, dal punti di vista del consenso morale e operativo al Risorgimento, è sicuramente fra gli Stati preunitari quello che ha sempre dato le maggiori delusioni ai nostri patrioti”. In pratica è rimasto sempre fedele al Sommo Pontefice, invano hanno cercato di farlo sollevare contro la teocrazia papista, ma non ci sono riusciti mai. Il 20 settembre 1870, “non un romano andò a salutare i liberatori, mentre finestre e case della città erano serrate o chiuse a lutto”.
 Nel 6 capitolo a pagina 155 Viglione insiste su come non andava fatta l’Italia. Non una unificazione politica con ingrandimento del piccolo Piemonte, ma una confederazione cattolica degli Stati preunitari. Si scelse la “via sabauda”, con la conquista dei Regni della Penisola e della guerra all’Austria. Occorreva giustificare la conquista come una inevitabile azione di civiltà contro un’intollerabile barbarie non più accettabile in tempi di progresso e di democrazia. Ricordate Gladstone, tornato a Napoli nel 1888, confessò che aveva scherzato sullo stato di salute del Regno borbonico, lo stesso Petruccelli della Gattina, noto deputato della Sinistra, feroce anticlericale, scrive in riguardo a Poerio, un attivo fuoriuscito inventato per calunniare i borboni: “Quando noi agitavamo l’Europa e la incitavamo contro i Borboni di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di questa orrida dinastia, avevamo bisogno di presentare ogni mattina ai credenti leggitori d’una Europa libera una vittima vivente, palpitante, visibile, che quell’orco di Ferdinando divorava ad ogni pasto”Il problema è che dopo centocinquant’anni si continua a scherzare e a credere a queste menzogne.

A incensare ai vari padri della Patria come Cavour e Garibaldi, soprattutto quest’ultimo,un pirata e ladro di cavalli, in Perù venne arrestato e gli tagliarono i padiglioni delle orecchie. Sulla morte di Anita, la sua compagna, c’è un racconto inquietante, pare che dall’autopsia del cadavere si riscontra la trachea rotta e una lividura circolare intorno al collo,segni ‘non equivoci’ di morte per strangolamento. Se veramente così fosse, chi e perché poteva avere interesse a strangolare Anita? Si chiede il professore Viglione nel libro.
 A proposito della spedizione dei mille in Sicilia, scrive nel 1882, il massone Pietro Borrelli: “non si deve lasciar credere all’Europa che l’unità italiana, per realizzarsi, aveva bisogno d’una nullità intellettuale come Garibaldi. Gli iniziati sanno che tutta la rivoluzione in Sicilia fu fatta da Cavour, i cui emissari militari, vestiti da merciaiuoli girovaghi, percorrevano l’isola e compravano a prezzo d’oro le persone più influenti”.
 Infatti, enormi sono state le somme dispensate per corrompere i funzionari borbonici e per fomentare tra il popolo manifestazioni antiborboniche. Ma queste cose non sono accadute solo nel Sud in mano a Garibaldi. Intanto la corruzione, diventava malattia endemica della nuova Italia.

La seconda Guerra Civile e la Questione Meridionale.

Il libro di Massimo Viglione che consiglio di leggere per la chiarezza, sinteticità e soprattutto per l’ampia documentazione, potrebbe essere un ottimo sussidio da utilizzare soprattutto nelle nostre istituzioni scolastiche, dopo tanti decenni di racconti di favole che hanno costituito, come scrive Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica,alimento primo di ogni refezione scolastica e di ogni ragionamento politico”. E purtroppo in questo anno di festeggiamenti del 150°, non si è smesso di raccontare soprattutto a scuola, le solite favoleA pagina 176, Viglione affronta il tema dei plebisciti farsa, dopo aver conquistato tutti gli Stati preunitari, il nuovo Regno d’Italia per essere accolto nel concerto delle Potenze internazionali, “occorreva dimostrare al mondo intero e alla storia che non solo era necessario liberare le popolazioni italiane oppresse da intollerabile barbarie, ma che tali popolazioni fossero contente – anzi, entusiaste – di essere liberate dai fratelli piemontesi”. 

Così man mano che i territori italiani cadevano preda dei piemontesi, venivano svolti i plebisciti di annessione al Regno di Sardegna. Su 22 milioni di persone, votarono 2.990.307 persone. Oltre il 98% dei votanti scelse Vittorio Emanuele. Non mi soffermo sulla “democrazia” di queste elezioni. Certamente però serve affrontare il grosso problema meridionale. Gli italiani del Sud non erano d’accordo a divenire piemontesi. Per questo ben presto presero le armi e furono pronti a morire contro il Regno d’Italia, contro i Savoia, contro Cavour e Garibaldi. Settant’anni dopo nasce la seconda guerra civile italiana, la prima fu quella tra giacobini e insorgenti. Dopo la rapida conquista del Sud ad opera dei mitici Mille di Garibaldi, “mille uomini – scrive Viglione – probabilmente, non conquisterebbero realmente nemmeno la collina di Posillipo, qualora i napoletani decidessero di resistere”. Tra l’altro ormai, è universalmente noto; tranne i manuali di storia che ancora si attardano sulle fantasiose ricostruzioni della vulgata per continuare a indottrinare le giovani menti, tutti riconoscono quelle che furono le reali ragioni per cui Garibaldi poté arrivare a Napoli (in treno) e conquistare un Regno con qualche morto. 

E qui Viglione elenca le cause che portarono i garibaldini alla cavalcata trionfale, dai tradimenti degli ufficiali borbonici all’appoggio della marina inglese, della mafia e della camorra, al finanziamento dei vari banchieri inglesi e italiani, i Milleessendo uomini come tutti gli altri e non titani, non sarebbero sbarcati a Marsala, o, nella più benevola delle ipotesi, una volta sbarcati di sorpresa, sarebbero stati ributtati in mare subito dopo”. Non si comprende come il generale Lanza che disponeva di 20 mila uomini a Palermo, si arrese senza colpo ferire, e firmò l’armistizio a bordo, guarda caso, di una nave britannica. A questo proposito è interessante il commento di Massimo D’Azeglio in una lettera scritta a Michelangelo Castelli, il 17 settembre 1860: Nessuno più di me stima ed apprezza il carattere e certe qualità di Garibaldi; ma quando s’è vinta un’armata di 60.000 uomini, conquistato un regno di 6 milioni, colla perdita di otto uomini, si dovrebbe pensare che c’è sotto qualche cosa di non ordinario(…)”. E’ chiaro che qui scrive Gilberto Oneto nel suo “L’Ipertitaliano. Eroe o cialtrone?”, il numero “OTTO”, “vuole naturalmente essere simbolico anche se in realtà le perdite effettive non sono state molte, in ogni caso assai inferiori a quelle dei successivi anni di guerre di ‘brigantaggio”.

Cavour aveva pensato a tutto a Garibaldi non restava altro che compiere la missione, marciando tranquillamente dalla Sicilia a Napoli, l’unica battaglia che dovette affrontare fu sul Volturno, ma qui ricorda Viglione, la battaglia fu vinta da Cialdini. Tra l’altro per conquistare le tre fortezze di GaetaMessina e Civitella del Tronto, le uniche che opposero eroica e fedelissima resistenza agli invasori, fu sempre l’esercito piemontesi del generale Cialdini, il massacratore dei primi insorgenti meridionali.

E qui inizia la grande strage. Una rivolta che riveste proporzioni straordinarie, per Viglione le vittime meridionali furono complessivamente 70 mila, ma altri storici, danno numeri più elevati, come nel libro Terroni di Pino Aprile. Nella primavera del 1861 al comando del generale Cialdini con un esercito di 120.000 uomini, inizia la campagna militare del nuovo Regno d’Italia per reprimere la guerriglia dei cosiddetti briganti. Inizia una spietata repressione militare, fatta di eccidi e distruzioni di paesi e centri ribelli, di fucilazioni e incendi, di saccheggi e incitazioni alla delazione, di arresti domiciliari coatti (la prima volta nella storia italiana) e di distruzioni di casolari e masserie, compresa l’eliminazione del bestiame dei contadini per la loro rovina materiale”. O’Clery parla di vero e proprio “terrore piemontese”, che si evince in particolare nei proclami con i quali i vari Cialdini, Pinelli, La Marmora e altri terrorizzavano le popolazioni in nome della libertà rivoluzionaria. “Superfluo ricordare – scrive Viglione – come questi ‘signori’, celebrati in tutti i nostri libri di storia e tramite migliaia di vie e piazze a loro dedicate in tutta Italia, oggi finirebbero senza dubbio alcuno sotto processo al Tribunale dell’Aja per crimini contro l’umanità e altro ancora”. Basta ricordare la distruzione e il massacro delle popolazioni dei due paesi lucani di Casalduni Pontelandolfo. E poi i prigionieri circa 50 mila borbonici e 12 mila pontifici, definiti “canaglia” da Vittorio Emanuele II e Cavour. Furono deportati al Nord nei forti di Fenestrelle e nel campo di concentramento di S. Maurizio vicino Torino. Civiltà Cattolica la definì significativamente, “la tratta dei napoletani”.

Le popolazioni meridionali furono definiti briganti, del resto è un termine ripreso dai giacobini francesi che definivano briganti i controrivoluzionari vandeani e chi si opponeva alla loro rivoluzione. La storiografia ufficiale liberale e filorisorgimentale, spiega il fenomeno come un fatto di delinquenza comune, mentre quella marxista come espressione di rivolta proletaria. Per il professore Viglione, le motivazioni reali (del cosiddetto brigantaggio) – senza voler escludere di principio anche elementi di carattere sociale e ricordando che senz’altro fra i ribelli vi furono efferati delinquenti nel senso letterale del termine – sono però più profonde e sono naturalmente quelle religiose e legittimiste: il popolo odiava liberali e ‘galantuomini’ perché, fin dai tempi napoleonici, avevano oppresso e vilipeso sempre la religione, profanando chiese e reliquie; la presenza di frati e preti è costante nelle raffigurazioni popolari della guerriglia, così come nei vessilli delle bande di guerriglieri esprimono sempre soggetti religiosi”.

Dopo i massacri e la violenza delle armi, arriva la fame, “le terre della Chiesa e dei demani furono confiscate e vendute ai facoltosi borghesi, i quali sfruttarono milioni di contadini; le industrie del Sud avviate da i Borbone furono distrutte, milioni di persone ridotte al lastrico. Nacque la ‘Questione meridionale’”. Migliaia di meridionale prendono i bastimenti ed emigrano per le Americhe, sono i figli indegni, che non capivano le esigenze di progresso e civiltà dei nuovi italiani, e restavano quindi fuori dalla nuova identità nazionale. Quella degli ‘italiani già fatti’, opposta a quella degli italiani ‘ancora da fare’”.

Termino ma evidentemente si potrebbe continuare a lungo. Il nodo da sciogliere della storia italiana è l’ideologia risorgimentale, questa specie di “dogma nazionale”. Quello che per essere patrioti, per dimostrare di amare l’Italia, occorre amare il Risorgimento e in particolare la venerazione dei quattro “padri della patria”. “E’ la più grande vittoria della vulgata risorgimentale – scrive Viglione – l’inganno per eccellenza: il far credere che chi narra ciò che è stato occultato (le insorgenze, il settarismo utopista, la guerra alla Chiesa cattolica, i brogli elettorali dei plebisciti, le stragi dei ‘briganti’, il piemontesismo, il fiscalismo, l’emigrazione ecc.) e di contro non celebra Mazzini e Cavour, Vittorio Emanuele II e Garibaldi, Napoleone e Gioberti, sia ‘antitaliano’ o comunque contro l’unità nazionale. O magari studioso poco serio”. Il libro di Viglione racconta a grandi linee, “la drammatica favola risorgimentale, la ‘leggenda nera’ che i settari, i cantastorie prezzolati, i traditori, gli ingannati, i pigri e gli ignoranti vanno ripetendo sulle piazze e fanno ripetere nelle aule scolastiche, per la formazione dell’uomo e del cittadino”. (Giovanni Cantoni, L’Italia tra Rivoluzione e Controrivoluzione; saggio introduttivo a Rivoluzione e Controrivoluzione, P.C. De Oliveira, Cristianità, Piacenza 1977).

 

S. Teresa di Riva ME,  24 agosto 2011
FESTA DI S.BARTOLOMEO.                                                Domenico Bonvegna

domenico_bonvegna@libero.it

 

 

 

 

 

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