UN VIAGGIO INSOLITO DA PALERMO A NAPOLI SEGUENDO LE ORME DI GOETHE.

IL MERIDIONE D’ITALIA NELLO SPAZIO E NEL TEMPO RACCONTATO IN MODO NUOVO DA MARINA VALENSISE. Un libro che dovrebbe essere letto in tutte le scuole del Sud.

L’ennesimo libro che racconta il Sud è scritto da Marina Valensise, giornalista de Il Foglio, calabrese di Polistena. “Il sole sorge a Sud”. Viaggio contromano da Palermo a Napoli via Salento, Marsilio editori (Venezia, 2012). Un libro che prova a raccontare in modo nuovo, in maniera eccentrica e un po’ folle, il Meridione d’Italia, attraverso un viaggio in quattro stagioni per cinque regioni: Sicilia, Calabria, Basilicata o Lucania, Puglia e Campania.

Valensise affronta un viaggio nello spazio e nel tempo, non solo fra luoghi, le strade, le piazze e le mura delle città del Sud, ma soprattutto nella memoria e nelle idee. Nell’introduzione, anticipa che per cambiare il Sud, “bisogna innanzitutto cominciare a cambiare se stessi, a partire dal modo di pensare se stessi. Molti, e io fra questi, sono convinti oggi che il Sud non sia un problema, ma una risorsa”. Al Sud nonostante la criminalità, c’è molta energia vitale e soprattutto c’è tanta fame, ma per risorgere, ha bisogno di autostima. Al Meridione secondo Valensise c’è una ”scarsa cura di sé che nasce dall’assenza di fiducia in se stessi e sfibra il Sud sino all’avvilimento. Un male al quale non è impossibile rimediare”.
Con l’estate in Sicilia, si parte dalla capitale del Regno di Sicilia, Palermo, dove la giornalista racconta qualche retroscena del governo e della vita al Comune, dentro il palazzo “delle Aquile”, quando era sindaco Diego Cammarata, votato e rivotato dai palermitani, rimasti poi delusi dal suo operato. 

Anche Valensise fa riferimento al mitico “Viaggio in Italia” di Goethe del 1787, quando da Napoli sbarcò a Palermo con l’amico Kniep, trovando anche allora le strade della città piene di rifiuti. Certo non come oggi, tempo di società di massa e discariche industriali. Così anche oggi come ieri il palermitano ha poco spirito sociale e pensa alla casa propria e non alla città, così imbattendosi in un forestiero indignato che si lamenta per le strade sporche, replica con la frase che avrebbe detto l’editore, Enzo Sellerio: “Io a casa mia vivo, non a Palermo”.

Tuttavia scrive Valensise, non è solo il palermitano e in generale il siciliano, ma anche il calabrese, forse tutti i meridionali, che hanno poco senso civico. Si fermano al proprio uscio di casa, magari sempre pulita e tirata a lucido da donne forti ed operose. Intanto imperversano le inchieste giudiziarie, gli arresti per truffe, gli sprechi, le malversazioni, i pozzi avvelenati e laghi di liquame, i disastri ecologici. Il libro racconta dell’Amia, l’azienda municipalizzata per l’igiene ambientale, e della tolleranza zero in materia di smaltimento.
A questo scenario si aggiungono i migliaia di precari, che ora i governi “si trovano sul groppone”, il lascito dei vari assessori regionali al lavoro, i Pip, Gesip, Lsu, lavoratori socialmente utili. E poi l’Ato, che hanno moltiplicato gli organici, gonfiato le retribuzioni, con il mostruoso indebitamento.
Prima di lasciare Palermo la giornalista fa un bel quadretto sul modo di pensare del siciliano, è l’eredità di Tomasi di Lampedusa, con il suo atavico pessimismo insulare.

“Ormai s’impongono – scrive la Valensise – come un luogo comune quei giudizi che lo scrittore mise in bocca al principe di Salina durante un colloquio col piemontese Chevalley, venuto a offrirgli la nomina a senatore del regno: ‘Il sole narcotizzante che annulla la volontà dei singoli e mantiene ogni cosa in un’immobilità servile, la volontà del sonno dei siciliani, che odieranno sempre chi li vorrà svegliare, la loro sensualità come desiderio di oblio, l’immobilità come desiderio di morte, e ancora la violenza del paesaggio, la crudeltà del clima, col sole a strapiombo per sei mesi l’anno, e l’estate lunga e tetra come l’inverno russo’”.

In pratica ancora oggi, questo è il topos, che accoglie il forestiero in Sicilia. Pertanto secondo Valensise,“i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria(…)”. La giornalista inoltre, individua nel popolo siciliano, il “vezzo dell’autodenigrazione, perverso sintomo di un complesso di superiorità”. Tutto questo sembrerebbe non lasciare speranza per Palermo, la Sicilia e in generale per tutto il Sud.
Dopo Palermo Valensise, passa all’”eccezione etnea”, a Catania, “la Milano etnea”, “la Milano del Sud”, qui, “è un’altra storia”.

A cominciare dalla politica, si opera diversamente. A Catania sembra che si voglia confutare il Gattopardo, ci pensa Ivan Lo Bello, il presidente degli industriali: “Noi vogliamo abbattere il mito della Sicilia irredimibile, della terra condannata da atavico fatalismo a non cambiare, a non poter migliorare”.
Attraversando lo stretto di Messina, passiamo alla “solitudine di Reggio Calabria”, al “Paradiso della Calabria”. Ma subito però Valensise si affretta a scrivere che dal paradiso naturale del territorio, peraltro decantato dai vari viaggiatori della storia, si passa alla “desolazione civile che per molti versi avvicina questa regione all’inferno”.

Una contraddizione che nasce dai tempi di Cassiodoro, il consigliere di Teodorico, che segnalò al re dei Goti, lo scarto fra la natura sublime, fertile e opulenta di questa terra e le popolazioni. La giornalista critica duramente la città di Reggio, sottolinea la mancanza di episodi positivi, la sua popolazione spesso ama rifugiarsi nel vittimismo e fugge dalle responsabilità. “Qui alligna la ndrangheta, quella che oggi sembra essere la più potente organizzazione criminale rimasta in circolazione”. I dati riportati sono allarmanti: “Solo nella provincia di Reggio, in tutto 600 mila abitanti, gli inquirenti contano più di 10 mila affiliati alle cosche, che sarebbero ben 112, sulle circa 200 disseminate nell’intera regione e collegate con molte regioni d’Italia, a cominciare dal Nord, d’Europa e dei cinque continenti”.
In pratica, negli ultimi trent’anni, la ndrangheta ha fatto un salto di qualità, “si è passati dai sequestri di persona all’infiltrazione nei grandi appalti pubblici, e da lì alla produzione e distribuzione di cocaina, che ha permesso la metamorfosi di un gruppo di pastori trogloditi nella più pericolosa multinazionale del crimine, attiva oggi su scala planetaria”.

Nicola Gratteri, parla di un fatturato annuo di 44 miliardi di euro, stime Eurispes, pari al 3 per cento del pil. Dunque Reggio continua ad essere una città difficile, i reggini spesso subiscono e girano la testa dall’altra parte, infine, prospettano ai propri figli di andarsene. In politica si è guardato a Giuseppe Scopelliti, eletto sindaco col 71 per cento, il ragazzino cresciuto nel Msi, poi in An e quindi Pdl. Ma poi si scoprono le collisioni tra mafia e politica e quindi siamo punto e accapo.
La Valensise non può che fare una spietata analisi del territorio, dove quasi sempre domina il fatalismo, l’indifferenza, la paralisi e la passività. Con questi modi di pensare non si va da nessuna parte.

 

CALABRIA, CONTINUA IL VIAGGIO CONTROMANO NEL SUD ITALIA TRA STORIA E ATTUALITA’.

La Valensise nel suo “Il sole sorge a Sud”, si augura di “rompere il muro del silenzio”, che domina nella sua Calabria. Ma non è facile, anche se alcuni uomini delle istituzioni, che lavorano da anni sul territorio, intravedono qualche reazione tra la gente. Però non sembra pensarla così il magistrato Nicola Gratteri, da anni in prima linea nella lotta alla ‘ndrangheta e autore di libri di successo, ha decretato che “la ‘ndrangheta non finirà mai, durerà finchè dura l’umanità”, ma Gratteri, scrive la Valensise, “è un pessimista tragico, come può esserlo un greco di Gerace.

E’ un sostanzialista convinto dell’irredimibilità del male che combatte. Un’idea opposta a quella di Giovanni Falcone, che invece era un creaturista (…)”. Pertanto per la giornalista de Il Foglio, Gratteri “è nutrito da un’antropologia negativa della Calabria e del calabrese, estendibile per lo più al meridionale”.
Certo visitando l’Aspromonte, “ultima Thule”, della penisola e del continente, ha ragione il magistrato calabrese. La Valensise ha percorso quelle strade in mezzo allo straordinario paesaggio delle tante fiumare, tra boschi e rocce.

“Mai contrasto è apparso più stridente tra la natura splendida e apparentemente incontaminata del luogo, e la desolazione degli abitanti, circondati da criminali, estorsori, taglieggiatori, omicidi, sfruttatori, troppo a lungo difesi dal silenzio, protetti dalla cerchia di amici e parenti, che nei piccoli centri di mille abitanti bastano a conquistare la maggioranza ed eleggere un sindaco”. Su questo vasto territorio di ben 37 comuni, si potrebbe proporre un itinerario turistico, che potrebbe fare la gioia di tanti appassionati di trekking.

Il libro della Valensise con la sua attenta descrizione, ci fa penetrare nel territorio, attraverso strade più o meno tortuose, che da Locri, Bovalino, portano a San Luca, la città natale dello scrittore Corrado Alvaro.
La giornalista non si ferma a raccontare l’attualità, ma spesso fa riferimento al passato, alla Storia, ai grandi viaggiatori, per lo più inglesi e tedeschi, che hanno descritto in diari i loro strepitosi viaggi, come Edward Lear che s’inerpicò sull’Aspromonte con un cavallo per i bagagli, perlustrando il territorio da Motta San Giovanni a Bagaladi, da Condofuri a Bova, via San Luca, Polsi, fino ad arrivare a Gerace. Naturalmente non poteva non descrivere il fenomeno del santuario della Madonna di Polsi, con tutto il suo fascino, tra sacro e profano. “Era, e continua ad essere, un posto pazzesco”, scrive Valensise, qui si possono vedere pellegrini frammisti ad animali che avevano diritto ad entrare in chiesa.

Continuando il viaggio, il libro descrive e racconta la “Piana” di Gioia Tauro, con i suoi boschi di ulivi secolari e di agrumeti, dove è difficile intraprendere e scommettere sul futuro. La giornalista come per altri territori, elenca nomi e fatti che riguardano la zona, a cominciare dalle particolari tecniche intimidatorie di “controllo” del territorio delle varie cosche. Ma parla anche di imprenditori che nonostante le difficoltà riescono a resistere e a fare impresa, è la “fierezza di essere calabresi”, che lottano “a mani nude contro la malavita, per resistere all’illegalità fatta sistema”. Il libro si sofferma sull’utopia del Quinto centro Siderurgico, un “assurdo economico”, che negli anni settanta dopo la rivolta di Reggio per lo “scippo” del capoluogo, aveva illuso tanti calabresi. Infatti allora il ras cosentino del Psi Giacomo Mancini, stabilì che a Cosenza sarebbe andata l’Università, a Catanzaro la Regione e a Reggio il Quinto centro siderurgico.

Per far posto all’industria furono espropriati 120 ettari di uliveti fertilissimi. Dopo il tramonto del centro siderurgico, nel 1995 decolla l’idea del porto per navi container, in pochi anni Gioia Tauro diventa il secondo porto per il trashipment del Mediterraneo dopo Valencia. Uno dei rari esempi di imprenditoria sana nel sud Italia. Ma i problemi restano ugualmente, pare che il porto sia rimasto un’immensa fortezza assediata, dalle varie cosche della ‘ndrangheta, che praticamente non permettono di far decollare e sviluppare la grande impresa.
Passando a l Nord-est della Calabria, si giunge in un’altra “Piana”, quella di Sant’Eufemia, anche qui tra mille difficoltà, si arriva a Lamezia, attraverso due strade: l’autostrada e la vecchia statale 18. Secondo gli inquirenti, nonostante l’apparente tregua, pare che su 72 mila abitanti del Comune, “gli organici alle cosche, sarebbero almeno tremila”. Valensise punta la sua attenzione su un piccolo centro, Soveria Mannelli , di 3500 abitanti su una terrazza di 800 metri di altitudine, a trenta chilometri da Lamezia, è un’isola sulla Sila piccola, in mezzo alle querce, ai larici, ai castagni. Soveria è il comune più informatizzato d’Italia, con la connessione Wi-Fi per l’intero abitato. Qui la mafia non c’è. Semplicemente non esiste”.

E proprio qui è nata un’interessante impresa editoriale dei fratelli Rubbettino, un’azienda fondata dal padre Rosario, un libraio visionario. Un’impresa che dà lavoro a 80 persone e fattura 8 milioni di euro l’anno. Una specie di “Svizzera calata nel cuore della Sila”, in realtà la Rubbettino, forse è “un pezzo d’Europa immerso nel cuore della Calabria Citra, o Citeriore(…)”. Attenzione, quelli della casa editrice Rubettino non si sentono degli eroi, ma persone normalissime. Infatti, si schermisce Florindo Rubettino, “il problema qui al Sud non è l’eccellenza, ma il deficit cronico di ordinarietà, è la normalità come cultura diffusa”. Sarebbe interessante dilungarsi sulle opere pubblicate dalla casa editrice calabrese, qui sono usciti tutti i classici del liberalismo austriaco, mitteleuropeo, ostracizzato dall’egemonia della cultura di sinistra.

Ritornando alla questione criminalità, è molto interessante quello che scrive Enzo Ciconte, che ha studiato le mappe delle cosche fornite dalla Commissione antimafia, comparandole alle mappe storiche del brigantaggio, “sostiene che dove ci fu il brigantaggio, come nell’antico marchesato di Crotone, di cui facevano parte la Sila cosentina e la Sila catanzarese, la ‘ndrangheta non c’è. E viceversa, dove c’è la ‘ndrangheta, come nel reggino, il brigantaggio non ci fu o fu sporadico”.
Pertanto secondo la Valensise, sostenere “la filiazione tra brigantaggio e ‘ndrangheta non è solo luogo comune, ma un falso storico, accreditato spesso dagli stessi ‘ndranghetisti in cerca di blasone con cui nobilitare la rivolta contro lo stato e le classi dominanti”.

Inoltre, concludendo, è importante riportare le parole di Florindo Rubbettino, il direttore credo dell’azienda, a proposito del fare impresa al Sud: “Noi cerchiamo di ragionare sul Sud in termini innovativi, senza piangersi addosso, senza costruirci da soli le gabbie mentali. Puntando sul piagnisteo, sul rivendicazionismo neoborbonico, sul Mezzogiorno vittima dello stato unitario che cerca sempre altrove le ragioni della sua debolezza, per meglio invocare il risarcimento, non si rende un buon servizio al Sud Italia. Si finisce per perpetuare quella dipendenza clientelare che è il principale ostacolo allo sviluppo autonomo del Mezzogiorno”.

La Valensise però precisa che la riscoperta e l’amore per le radici che si respira alla Rubbettino, tra l’altro anche nei piatti e nei vini dell’agriturismo di famiglia, non è solo orgoglio identitario, ma soprattutto “un volano per la crescita della competitività dell’impresa e del territorio”.

Un’ulteriore nota finale, a proposito di case editrici, peccato che la Valensise non si è rivolta all’ottima “D’Ettoris editori”, fondata da Pino D’Ettoris, che opera a Crotone, anche qui si potevano trovare altre buone motivazioni per fare impresa al Sud.

UNA GIORNALISTA SULLE ORME DEL “GRAND TOUR” DI GOETHE PER CONOSCERE MEGLIO IL SUD ITALIA.

Effettivamente leggendo lo straordinario libro di Marina Valensise, sembra di riscoprire il nostro Meridione in tutti i suoi innumerevoli aspetti, dai tante paesaggi alla ricca Storia, dalla cultura alla fede, dagli intrecci politici alle spietate mafie. La Valensise descrive e racconta talmente bene quello che ha visto che invece della penna sembra utilizzare il pennello del pittore. Un testo così straordinario nel suo genere, credo di non averlo mai letto. Non vorrei esagerare ma il testo è una specie di summa, una veloce sintesi (anche se si tratta di ben 363 pagine) per chi intende conoscere il Sud in tutti i suoi aspetti. E senz’altro potrebbe essere utile nelle nostre scuole magari del Sud per stimolare i nostri studenti allo studio della propria storia, e per aprire dibattiti sulle tante cose che non vanno. Perchè non pensare di invitare nelle scuole la giornalista calabrese.
Continuo il viaggio della Valensise , attraverso l’inverno della Basilicata e delle Puglie, il “Nord” del Sud.

Risalendo la Ionica si arriva alla Piana di Metaponto, nella Lucania, che sembra la California. Valensise si intrattiene su le due città simbolo della regione: Matera e Potenza. Matera con i suoi Sassi sembra un inferno dantesco che Togliatti bollò come “una vergogna nazionale”. Effettivamente gli abitanti dei Sassi vivevano come bestie, peraltro con le bestie, in uno stato di arretratezza offensiva per la dignità dell’uomo, e di promiscuità insopportabile. Fu De Gasperi con un’apposita legge nel 1952 a far uscire 15 mila materani che ancora vivevano nei Sassi e a deportarli nelle case popolari. “Oggi i Sassi, dichiarati nel 1993 dall’Unesco patrimonio dell’umanità, sono l’ultima frontiera del lusso e del glamour, la meta chic più esclusiva del turismo internazionale di lusso”.

Dietro all’incredibile metamorfosi dei Sassi di Matera, Valensise scopre la regia di un intellettuale, un uomo di cultura, l’avvocato De Ruggieri, che ha creduto nel miracolo di rivalutare il territorio dei Sassi. Secondo lo studioso Matera è la città viva più antica del mondo, ininterrottamente abitata da dodicimila anni. Ultima curiosità che può trasformarsi in vergogna per Matera: c’è la stazione ferroviaria, ma il treno non è arrivato mai. Il paradosso è che qui per anni hanno prodotto le carrozze per l’Etr500, i treni ad alta velocità, carri merci, addirittura i carri navetta per il tunnel della Manica.
Anche per la Basilicata, Valensise apre delle parentesi storiche a cominciare dell’epico viaggio del capo del governo liberale Zanardelli, bresciano, nel 1902,“il settentrionale più meridionale d’Italia”.

Nei paesi della Lucania il politico lombardo ha potuto vedere con i propri occhi “il lavoro” sporco che qualche decennio prima hanno fatto i suoi “compagni” mettendo a ferro e a fuoco quei territori per sgominare il cosiddetto brigantaggio. Praticamente il risultato di quella guerra spietata contro il popolo meridionale è stato l’emigrazione dei lucani, decimando interi paesi. “Se non emigravi non mangiavi”, questa è stata la “liberazione” dei popoli meridionali soggiogati dai biechi borboni.

A proposito del brigantaggio, a Rionero, nella patria di Carmine Crocco, c’è il museo del Brigantaggio. “Il brigantaggio fu l’unico momento in cui i contadini furono protagonisti”, scriveva Carlo Levi. E ogni anno il Comune di Rionero dedica una giornata intera al mito del “Generale” Crocco, con passeggiate nei boschi, letture di poesie, filmati, mostre d’arte. Continuando con le celebrazioni storiche, la Valensise riporta nel libro, la grande manifestazione teatrale che si svolge in ogni estate presso il “Bosco della Grancia”, a pochi chilometri da Potenza. Qui si assiste a un cinespettacolo dal vivo, fra boschi secolari, castelli diroccati, dirupi sinistri. Ben quattrocento figuranti volontari, intere famiglie in abiti d’epoca, da luglio a settembre, mettono in scena la vita quotidiana ai tempi dell’insorgenza antinapoleonica e antipiemontese per raccontare “la Storia bandita”, cioè quella storia dei briganti e del brigantaggio.

L’ideatore del progetto è Giampiero Perri, convinto di riscattare il passato: “Noi meridionali, nei libri di scuola, è come se prima del 1860 fossimo stati privi di uno stato. E invece facevamo parte di un regno che aveva una dimensione statuale e un progetto di sviluppo per il Mezzogiorno, fondato sull’incremento delle vie del mare, sul potenziamento della marina mercantile, sulle industrie portuali. La conquista piemontese per noi meridionali segnò una frattura: significò smantellare i porti, trasferire i cantieri, fermare impianti storici come le ferriere di Mongiana(…) Continua Perri, “è un errore non ripensare quel trauma storico che per il Sud fu il Risorgimento(…). Lo spettacolo della Grancia ha lo scopo anche di purificare la memoria. L’ideatore della manifestazione ci tiene a precisare che loro non intendono fare “un’operazione di nostalgia, ma il tentativo di ritrovare l’antica dignità. E glielo dice uno che considera l’Unità d’Italia un punto di non ritorno(…)”.
La Valensise inoltre, ricorda “La Conquista del Sud”, raccontata dall’indimenticabile Carlo Alianello, nei suoi romanzi sull’annessione forzosa del Regno delle Due Sicilie al Regno Sardo, che io adolescente ho avuto la fortuna di leggere nel lontano 1972.

Ma continuiamo il viaggio, si passa a Potenza, l’illuminista giacobina, da contrapporre alla Matera borbonica. Pare che sia stata una delle prime città italiane ad alzare il vessillo tricolore. Potenza è una città moderna, per controbilanciare Matera, che ogni anno allestisce nei Sassi, un presepe vivente con 700 figuranti volontari e 40 animali selezionati, ha deciso di lanciare una grande mostra di presepi.
Devo correre, passo al Salento, pieno di Storia, con il suo Barocco e soprattutto la Taranta, di recente scoperta.
In Puglia, ci sono diverse Puglie. La regione appare come una sterminata distesa pianeggiante dove si coltiva di tutto in particolare, grano, vite, e ulivo. Nel Gargano, scrive la Valensise non piove mai, previsioni smentite proprio in questi giorni dopo la disastrata alluvione di questi giorni. Si parte da Lecce l’armoniosa, come la chiamava Tommaso Fiore, è la città più seicentesca d’Italia , che ha conservato intatto il suo splendore, “tanto che appare al visitatore come una fantasiosa selva di pietra intagliata: putti, puttini, draghi, scimmie, aquile, grifoni e caproni, stemmi, leoni e cariatidi, statue e statuette (…)”e tanto altro. Girando per le strade della città “è tutto un teatrino barocco”.

I grandi viaggiatori, come l’archeologo Winckelmann, ne rimase rapito: “Lecce, è dopo Napoli, la più bella e la più grande città del Reame”. Dal 2001 il barocco è diventato il brand, il marchio di fabbrica con cui rilanciare l’immagine della città nel mondo. Anche qui si apre una parentesi storica sull’avvocato Liborio Romano, il “traditore” dell’ultimo re del Regno Duo Siciliano, Francesco II, che per scongiurare il peggio, cioè violenze e spargimenti di sangue, chiamò i camorristi a governare la città di Napoli, prima che arrivasse Garibaldi. Mentre Francesco II combatteva, finalmente, la sua battaglia a Gaeta insieme alla giovane regina Maria Sofia. A questo proposito la Valensise cita il giornalista napoletano, del “Mattino”, Gigi Di Fiore, autore di la “Controstoria dell’Unità d’Italia”, un altro testo che racconta la vera storia che mise fine a sette secoli di storia del regno del Sud.

Ritornando al viaggio, dopo Lecce, sulla strada per Otranto, si fa tappa a Sternatia, una degli undici paesi della Grecia salentina, dove ancora si parla grico, un dialetto atavico. Qui si balla in piazza per la Notte della Taranta, festival itinerante che dal 1998 riunisce nel Salento migliaia di persone per ballare la pizzica, una musica popolare, con tamburelli e fisarmoniche.

DALLE RICCHE PUGLIE ALLA CAPITALE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE.

 Il territorio pugliese viene valutato come un “un lembo del Sud che in realtà è il Nord del Sud”.

Qui è tutto diverso dal resto del Meridione, a cominciare dal passato, dalla tradizione, qui “l’antico non è, come in Calabria, una condanna dalla quale rifuggire, un fardello dal quale emanciparsi in una spericolata corsa verso il nuovo (…)”. In Puglia, il passato, secondo la giornalista de Il Foglio, “non è un retaggio da coltivare con scetticismo velato di ironia, come succede in Sicilia (…)”. Invece, “il passato è una materia viva, risorsa, alimento e passione, sangue, terra, dolore e ricompensa. E soprattutto progetto”. Addirittura i pugliesi sono riusciti a rivalutare “la pizzica, il morso della tarantola”. Da quindici anni a questa parte è diventata un fenomeno di costume. La taranta è diventata un’industria del turismo, in grado di attrarre ogni estate trecentomila persone itineranti “Si è trasformata in un grande evento popolare che ogni anno riunisce nelle piazze del Salento decine di migliaia di persone, giovani, meno giovani,(…) disposti a ballare per ore e ore, davanti al palco dei concerti itineranti nei comuni della Grecia, al suono di musiche popolari, di tarantelle storiche”.

In questi territori perfino l’arrivo degli albanesi ha contribuito a modificare il proprio modo di pensare. “Dovevamo giocarci una nuova partita, – ha detto il sindaco di Melpignano – rispondendo da protagonisti, in modo autonomo, senza imitare il Nord, ma provando a essere noi stessi.” E’ questo il miracolo postmoderno del Salento, tra barocco e taranta. In fondo al Salento si arriva a Otranto e qui la Valensise, apre l’abituale pagina di storia, descrive l’assedio ottomano di Maometto II nell’estate del 1480, con ben duecento navi.
Mentre i notabili scappavano, il popolo otrantino resistette, finché i turchi aprirono una breccia e entrarono nella cittadella, trucidando tutti, e sgozzando l’arcivescovo Stefano. Successivamente ottocento uomini, fatti prigionieri, invitati a rinnegare la fede cristiana, guidati da un sarto di professione, un certo Antonio Primaldo, scelsero la gloria del martirio.

Furono tutti decapitati sul colle della Minerva a uno a uno dal boia ottomano. La leggenda vuole che il vecchio Primaldo, decapitato, si rialzasse in piedi e rimanesse immobile con la testa sgozzata. Ora troviamo le loro teste nelle teche di vetro dietro l’altare della cattedrale di Otranto. Gli ottocento sono stati beatificati da papa Wojtyla, mentre l’anno scorso papa Benedetto XVI, qualche giorno prima del suo addio al pontificato, li ha canonizzati.  

Purtroppo sono pochi quelli che ricordano lo straordinario episodio, secondo la Valensise, si registra poco orgoglio da parte dei pugliesi, soltanto Alfredo Mantovano, ex sottosegretario agli interni, cattolico militante di Alleanza Cattolica, li ricorda paragonandoli ai martiri cristiani di oggi trucidati in Iraq dal fondamentalismo islamico. “Solo lui legge quest’episodio di resistenza di un’intera città alla proposta di abiura come la prova estrema della difesa dell’Occidente, avvenuta nella scettica Italia del Rinascimento, a dispetto degli interessi degli stati contrapposti l’uno all’altro in una guerra di predominio continua(…). In un certo senso il disinteresse di allora è simile a quello di oggi”.
Per quanto riguarda l’economia pugliese, il testo della Valensise racconta diverse esperienze di uomini e donne che hanno fatto impresa in questi territori, che hanno scommesso in un territorio certamente, molto diverso da quello lucano o calabrese, qui è “tutto dolce, lieve e mitigato e la stessa violenza sembra assumere tratti stemperati”.
Inizia con il regista barone Edoardo Winspeare, convinto che la Puglia non ha bisogno di lamentarsi, come avviene in altre regioni del Sud. La Puglia potrebbe essere rappresentata come un popolo di formiche, succede nella “Masseria Carestia”, vicino Ostuni. Un fortilizio guidato dai Massari, dove si produce di tutto con procedimenti all’avanguardia, ben descritti dalla giornalista de Il Foglio.

Ogni giorno da Carestia, escono migliaia di confezioni di peperoni, zucchine, pomodori e carote, verdure per tutto l’Italia e per l’Europa. Mentre in un piccolo centro vicino Taranto, a Crispiano, c’è il miracolo di Michele Vinci con la sua Masmec, un’azienda leader nel settore dell’automazione industriale, con clienti finali le grandi imprese automobilistiche come la Bmw, Mercedes Benz, Porsche, Wolksvagen, Fiat.
Per comprendere meglio l’antropologia pugliese, e la rivoluzione mentale in atto, la Valensise fa un paragone stuzzicante e divertente, tra due uomini dello spettacolo abbastanza conosciuti: Checco Zalone , l’ultima maschera della commedia dell’arte e del teatro barese e Lino Banfi, il “terrone provolone”, un erotomane pieno di complessi.

Prima di arrivare a Taranto, a Martina Franca, troviamo Mario Desiati, un giovane scrittore, che riesce a raccontare la provincia italiana e soprattutto la difesa dei trulli, quei muretti a secco, che nessun pugliese sa più costruire. Si arriva a Taranto, la città dei due mari, ricca di storia, è una delle città più mitologiche d’Europa. “Qui ogni pietra trasuda la storia della civiltà”. Basta scavare un po’ e la terra restituisce tesori sepolti da millenni. Purtroppo negli anni ci sono stati quelli che l’hanno fatto indisturbati, trafugando ogni ben di Dio. La Valensise evidenzia il ruolo della città come apertura ad altri popoli, “appare ancora oggi come un’antica metropoli cosmopolita, un crogiolo di razze, lingue, costumi”.

Taranto è la città di Giovanni Paisiello, il grande musicista dell’inno borbonico, ma è anche la città dell’Ilva ex Italsider, con i suoi fumi rossi e la polvere color ruggine che ora sta distruggendo l’ambiente. E qui Valensise, si ferma sulla sciagurata politica della grande industria pesante, in particolare fomentata negli anni 70’dalla sinistra, che “sognava di cambiare il volto dell’antropologia meridionale, di riscattare il bracciante, di creare, grazie alle ciminiere industriali, l’uomo nuovo per liberarlo dalla servitù della terra”.

Dopo Taranto il viaggio contromano della Valensise arriva nella “Terra laboris”, nel Sannio a Benevento, una città simile alla Svizzera, pulita, ordinata, accogliente a cominciare dalla stazione ferroviaria. Qui si respira un’altra aria, niente indolenza o strafottenza.

Benevento è la città del liquore “Strega”, forse più famoso in Italia. Altra azienda interessante è l’olio di Montesarchio, uno dei più grandi complessi agroindustriali del mondo. “Oggi è considerato un caso di studio in fatto di gestione industriale e crescita produttiva, per aver raggiunto un fatturato che ha moltiplicato per dieci i 20 milioni di finanziamenti pubblici a fondo perduto(….)”.

Prima di arrivare a Napoli, si passa nella costa sorrentina, dove tra ristoranti rinomati e bellezze naturali, capisci che qui è un mondo a parte. Eccoci finalmente a Napoli, capitale del grande Regno Borbonico, che ha stregato visitatori illustri a cominciare da Wolfgang von Goethe che la considerava la più bella metropoli del Mediterraneo, la più grande città marittima dell’Europa. L’illustre ospite rimaneva talmente estasiato del popolo napoletano che poteva affermare: “Non lavorano semplicemente per vivere, ma piuttosto per godere, e anche quando lavorano vogliono vivere in allegria”. Ancora una volta Valensise polemizza con la storia ufficiale dei vincitori, la città partenopea, forse era l’unica capitale d’Italia, dopo l’unità diventa soltanto una semplice prefettura del neonato Regno d’Italia.

A questo punto il testo riafferma quello che ormai per la verità ammettono in tanti, tranne qualche “residuato bellico” ultraliberale risorgimentista: il Regno delle Due Sicilie era “l’unico che godesse una situazione di prosperità finanziaria, con una rendita pubblica fra le più alte d’Europa, quotata alla borsa di Parigi al 105-106 per cento del suo valore nominale, mentre quello piemontese, con lo stesso valore demaniale, stentava a tenersi sul 70 per cento”. Certo la vera Storia va studiata tutta, senza però “rancori retroattivi”, che diano sfogo a rivendicazioni e nostalgie fuori luogo. Chiudo con il riferimento all’interessante “Modello Sanità”, il quartiere difficile di Napoli dove don Antonio Loffredo insieme a tanti giovani è riuscito a fare grandi cose. Ho già presentato la straordinaria esperienza del prete napoletano, che è riuscito a coinvolgere decine di giovani in diversi progetti tra cui quelli del restauro e rivalutazione delle catacombe di S. Gennaro e degli ipogei ellenistici ai Cristallini. Penso che queste esperienze positive, dovrebbero essere conosciute meglio per incoraggiare tutti a lavorare senza lamentarsi o piangersi addosso.

 

Rozzano MI, 10 settembre 2014
S. Pulcheria imperatrice.                                                                 DOMENICO BONVEGNA
                                                                                                 domenico_bonvegna@libero.it

Ho appena ricevuto per questo lavoro studio un messaggio di ringraziamento su facebook della giornalista Marina Valensise. Credo un giusto riconoscimento…non sempre arriva dalle opere recensite…

/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.