ROMA CAPITALE MA LA QUESTIONE DELL’UNITA’ D’ITALIA RIMANE SEMPRE APERTA.

In questi giorni ricorre l’anniversario di ROMA CAPITALE in questa occasione Marco Invernizzi reggente nazionale di Alleanza Cattolica richiama un discorso del cardinale Montini del 10 ottobre 1962, in Campidoglio, nella sala degli Orazi e Curiazi, ed era la vigilia dell’inaugurazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Il card. Montini svolse un discorso come di consueto di grande profondità storica e teologica, che oggi aiuta a comprendere quanto avvenuto allora e, in un certo senso, nei 150 anni successivi.(M. Invernizzi, “Roma Capitale, 5.2.2020 in alleanzacattolica.org)

Certo in questo momento storico i problemi degli italiani sono altri, ma come sempre è necessario raccontare la verità, non per risvegliare rancori e proteste, anzi, bensì per mostrare l’opera della Provvidenza nella storia.

Le forze ideologiche e politiche (e militari) che invasero Roma e la conquistarono il 20 settembre 1870, passando attraverso la Breccia di Porta Pia, non volevano semplicemente (almeno alcune, non tutte) che Roma diventasse la capitale del Regno d’Italia, ma speravano di eliminare definitivamente ogni presenza, non solo territoriale, della Chiesa, poiché erano convinti che il venir meno del potere temporale avrebbe comportato la fine del Papato stesso. Non fu così. L’arcivescovo di Milano lo ricordò e ricordò anche come, provvidenzialmente, dall’umiliazione subita (e dalla violenza manu militari, va aggiunto) il Papato ottenne uno straordinario prestigio che gli permetterà di assurgere a una considerazione internazionale che difficilmente avrebbe potuto avere come capo di uno Stato pontificio: il Papa che «usciva glorioso dal Concilio Vaticano I per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà nella Chiesa di Dio» era lo stesso che «usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma».

Sono trascorsi 150 anni ed è passata tanta acqua sotto i ponti di Roma. Il liberalismo risorgimentale che spogliò il Papato del potere temporale è finito nel 1922 con l’inizio della rivoluzione fascista, la quale a propria volta sarà sconfitta dopo l’ingresso sciagurato dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, e dopo una drammatica e sanguinosa guerra civile (1943-1945). Nel dopoguerra i cattolici andarono per la prima volta al governo dell’Italia unita, ma non raccontarono mai agli italiani la verità sulle origini del Risorgimento, e questo ha impedito il nascere e il consolidarsi di una vera identità nazionale. Non si trattava di dividere, ma di spiegare il perché di divisioni che comunque c’erano, nel Sud occupato militarmente dall’esercito italiano dopo il 1861 per almeno un decennio, fra cattolici e anticlericali, e fra le stesse famiglie ideologiche protagoniste della Rivoluzione italiana.

Senza il racconto della verità le divisioni rimasero, anche fra gli stessi cattolici, come spiegava il filosofo cattolico Augusto Del Noce (1910-1989), quando ricordava che gli stessi cattolici, non condividendo un’interpretazione comune della storia, non potevano neppure avere una prospettiva politica condivisa.

 

DOPO UN ANNO LA QUESTIONE DELL’UNITA’ D’ITALIA RESTA SEMPRE APERTA.

Finisce l’anno del Centocinquantesimo. Al netto della retorica, e a tratti dell’ipocrisia, valeva la pena di festeggiarlo”(?) Il punto interrogativo è mio, Sallusti, nel suo bilancio dell’anno, non l’ha previsto.

Per il 150° dell’Unità d’Italia, ci sono stati quelli che lo hanno festeggiato insistendo con la solita retorica sull’epopea risorgimentale, in particolare ripetendo la noiosa beatificazione a senso unico dei cosiddetti padri della patria (Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele), in questo modo, imponendo una specie di catechismo risorgimentale” edulcorato, altri invece, in verità una minoranza, non solo si sono rifiutati di festeggiare il 150° dell’unità del Paese, ma hanno inneggiato ai vecchi Regni prima dell’unità d’Italia, creando una sorta di leggenda aurea, in particolare per il Regno delle Due Sicilie.

Per la verità, questi ultimi, forse meritano maggior rispetto dopo decenni di demonizzazione di quel Regno e di palese occultamento degli avvenimenti che misero fine al Regno stesso.

In pratica le celebrazioni spesso sono state accompagnate o da troppe glorificazioni al limite della comicità ( penso alle dichiarazioni penose e farsesche di un sindaco della riviera jonica messinese) o da troppe polemiche e criticità assoluta contro la nuova unità statuale. Nei miei interventi ho cercato di seguire il senso dello slogan che Alleanza Cattolica ha utilizzato nei tanti convegni organizzati in numerose città italiane: “Unità Si. Risorgimento No”, e credo che anche il cardinale emerito di Bologna, monsignor Giacomo Biffi, non si sia tanto discostato dallo slogan nel suo ultimo libro sul risorgimento: mi riferisco a L’Unità d’Italia. Centocinquant’anni 1861 – 2011, edito da Cantagalli, Siena (pp.86, e 8,00).

E’ una ricorrenza suggestiva e non può essere disattesa”, scrive monsignor Biffi a proposito del 17 marzo 1861, “è una rievocazione ricca e complessa, al servizio (almeno nelle intenzioni) di una approfondita e più adeguata comprensione dell’intera vicenda”, Biffi per affrontare il risorgimento italiano, parte dalla data del 1796l’anno dell’ingresso in Italia delle truppe guidate da Napoleone. Una invasione di nuovo genere. L’Italia aveva patito diverse invasioni, questa era molto diversa, inedita, non paragonabile alle precedenti. Gli eserciti francesi hanno inferto alle popolazioni italiane una miriade di tasse per contribuire alle spese di guerra. I francesi furono un esercito di ladri. Prima di allora i conquistatori, spagnoli, austriaci, mai si erano permessi di derubarci delle nostre opere d’arte. (si ripete oggi con Sarkozy, quello che avvenne allora?)

Biffi insiste, i francesi erano un esercito di “ladri”, ma forieri di novità, cioè era un esercito di “missionari”. “Nascosto negli zaini di quei soldati, entrò in Italia l’annuncio di un radicale capovolgimento delle regole di convivenza sociale (…)”. In pratica, Napoleone, portò in Italia quelle “conquiste”, che avevano appena acquisito in Francia con la Rivoluzione del 1789. In particolare il “terrore” insanguinato del 1793, con il regicidio e il genocidio vandeano. Soprattutto portò quell’idea di Nazione, formulata dall’Assemblea Costituente del 1789. Scomparso Napoleone resta il modello transalpino, che affascinò una certa élite di italiani, che pensarono di superare la pluralità degli Stati italiani. Da questo momento inizia il cosiddetto processo del Risorgimento con la guida determinante della dinastia sabauda. Il nome stesso è suggestivo e fortunato e si può capire secondo Biffi, da quale speranza erano mossi i cosiddetti patrioti. Per loro il popolo italiano era vissuto nelle condizioni di semi schiavitù: “calpestati e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi”. L’Italia era morta, adesso bisogna farla risorgere.

Il cardinale è convinto che alla fine del XVIII secolo, l’Italia aveva bisogno di riforme che per certi versi il risorgimento ha in parte prodotto, però secondo Biffi, quello che non si può accettare è quella retorica divulgata che considera il risorgimento come rinascita totalizzante, un passaggio degli italiani dalle tenebre alla luce, se non proprio dalla morte alla vita. Infatti, con le celebrazioni del 150° si ama supporre che prima del 1860 “tutto è degenerazione e squallore scrive Biffi – dopo il 1860 tutto riprende a fiorire: il termine stesso ‘risorgimento’ insinua o suppone proprio questa amplificazione che invece chiederebbe, a nostro parere, di essere attentamente verificata”.

A questo punto il libro racconta la ricca vitalità del popolo italiano, della nostra penisola, in particolare del settecento. Il cardinale fa un elenco di conquiste in tutti i campi. Nella vita culturale e artistica, “les italiens” son presenti a Parigi; a Vienna, i “poeti cesarei, non hanno cognomi tedeschi, ma si chiamano, Apostolo Zeno, Pietro Metastasio, il linguaggio dell’opera lirica è italiano. Inoltre “Nel secolo XVIII scrive Biffi – si costruiscono chiese e palazzi sui modelli italiani, prima secondo gli stilemi barocchi e roccocò poi su quelli palladiani e neoclassici”. Perfino nella lontana capitale russa, San Pietroburgo, si edificano i palazzi da italiani come Francesco Rastrelli, Antonio Rinaldi. E poi la musica sinfonica, non solo quella operistica, da citare Corelli, Scarlatti, Vivaldi. Perfino Mozart viene a studiare in Italia.

Nel mondo scientifico il nostro Paese annovera nomi dal prestigio universalmente riconosciuto, quali Marcello Malpighi, Morgagni, Spallanzani, Galvani, Volta: “una stagione felice, che dopo l’unità non si ripeterà più”. Pertanto secondo Biffi, proprio quando abbiamo “un governo ‘italiano’, un parlamento ‘italiano’, un esercito ‘italiano’, proprio quando siamo stati accolti nel consesso dei popoli come un soggetto autonomo e ben individuato, parrebbe che non avessimo più niente da dire a nessuno”. Così le genti italiche quando erano divise, insegnavano qualcosa a tutti, una volta raggiunta la sospirata unità e indipendenza politica, hanno solo cercato di imitare un po’ tutti(…)Comunque sia scrive il cardinale, se c’è stato un ‘risorgere’, è stato un ‘risorgere’ relativo e parziale. Anzi con l’unificazione statuale c’è stato un calo della nostra connaturale creatività.

Al capitolo V monsignor Biffi si domanda se nel 1861 c’è stata unificazione o conquista da parte piemontese. Biffi sembra optare per la seconda opzione, la così detta ‘rivoluzione italiana’ è stata un procedimento di annessione. Per Biffi il pluralismo statuale precedente, anche se andava superato, “non era un fenomeno del tutto negativo: corrispondeva a un certo genio del nostro popolo e aveva dato tra l’altro, come ammirevole risultato, il fascino impareggiabile di molte città italiane vestite a festa come si conviene alle capitali”. Non si tenne conto delle particolarità e delle ricchezze degli Stati pre-unitari, sbrigativamente si impose a tutti i territori, la legislazione, la struttura amministrativa e la burocrazia piemontese.

 

S. Teresa di Riva, 31 dicembre 2011

Festa di S. Silvestro.                                                                     DOMENICO BONVEGNA

 

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