IL TERRORE ROSSO DELLA RIVOLUZIONE BOLSCEVICA.

LA VERITA’ SULLA RIVOLUZIONE CHE CAMBIO’ IL MONDO.

La caduta del muro di Berlino ha fatto cadere anche le troppe menzogne che ruotavano intorno alla cosiddetta rivoluzione d’ottobre russa ad opera dei bolscevichi nel 1917. Diversi studiosi hanno studiato il fenomeno, attingendo agli archivi segreti del PCUS al Cremlino, uno dei primi è stato l’americano di origine polacche, Richard Pipes, che ha prodotto un pamphlet di oltre 600 pagine, “Il Regime bolscevico. Dal terrore rosso alla morte di Lenin”, Mondadori (1999). Il testo copre gli anni tra lo scoppio della guerra civile (1918) e la morte di Lenin (1924).

Lenin subito dopo il colpo di Stato, ha partecipato alle elezioni per l’assemblea costituente, ma il partito bolscevico ottenne meno di un quarto di voti. Allora l’assemblea fu sciolta nel gennaio 1918 e dopo una sola riunione, iniziò il regime monopartitico. “I bolscevichi si servirono di tribunali politicizzati e della ceka, la polizia segreta di nuova costituzione, per scatenare il terrore che nel loro primo anno di governo soffocò efficacemente l’opposizione[…]”

Una rivoluzione fatta da due persone.

Interessante il racconto di Pipes su come si svolsero i fatti della rivoluzione d’ottobre. Lenin e Trockij giunsero al potere nascondendo tutto il loro vero programma, il vero obiettivo: la dittatura monopartitica. Lo sapevano solo un piccolo gruppo dei dirigenti del partito bolscevico. Pertanto, “furono in pochi a rendersi conto di che cosa fosse accaduto a Pietrogrado nella notte del 25 ottobre 1917”. “la cosiddetta ‘rivoluzione d’ottobre’ fu un classico colpo di stato”. In seguito Trockij, affermò che se nè Lenin [né lui] si fossero trovati a Pietroburgo, la rivoluzione d’ottobre non ci sarebbe stata”.

In pratica i fatti avvenuti a Pietrogrado non videro protagonisti le masse, che “ignorarono gli appelli dei bolscevichi per assalire il Palazzo d’inverno, dove erano in seduta gli anziani ministri di governo provvisorio, avvolti nei cappotti, e difesi soltanto da giovani cadetti, un battaglione di donne e un plotone di invalidi”.

I contadini e gli operai non erano “oppressi”.

Un altro mito che lo storico americano frantuma è la partecipazione della popolazione russa alla rivoluzione, in particolare, i contadini e gli operai. Entrambi erano poco influenzabili dalle ideologie rivoluzionarie, gli operai,“non avevano inclinazioni per il socialismo quanto invece per il sindacalismo: ritenevano infatti di avere diritto alle fabbriche, proprio come i loro parenti contadini avevano diritto a tutta la terra”.

Per Pipes non si interessavano di politica, piuttosto, avevano un anarchismo primitivo, senza alcun contenuto ideologico. Tuttavia, scrive Pipes,“si sente dire spesso che durante l’ancien regime i contadini russi erano ‘oppressi’, ma non è affatto chiaro chi li opprimesse. Alla vigilia della rivoluzione, godevano di tutti i diritti civili e legali; inoltre possedevano il novanta per cento del terreno agricolo e del bestiame, a titolo privato o comunitario[…]stavano meglio dei loro padri, ed erano molto più liberi dei loro nonni, che nella maggior parte dei casi erano servi[…] godevano senza dubbio di maggior sicurezza dei fittavoli irlandesi, spagnoli o italiani”

Pipes fa presente che allora in Occidente ci sono stati “orde di dottorandi guidati dai loro professori”, che speravano di trovare prove, documenti dove si dimostrava l’esistenza del radicalismo operaio in Russia prima della rivoluzione. Queste ricerche hanno prodotto numeri e fatti senza alcun significato.

L’intellighenzia alla conquista della Russia.

Invece per Pipes, il fattore decisivo e influente per la rivoluzione, fu l’intellighenzia. Questi erano una casta che rivendicavano il diritto di prendere la parola in nome di un popolo muto. Facevano riferimento alle tesi degli illuministi e consideravano la “rivoluzione” non “come una semplice sostituzione di un governo con un altro, ma come qualcosa di incomparabilmente più ambizioso: la trasformazione totale dell’ambiente umano allo scopo di creare una nuova stirpe di esseri umani[…]”. Erano opinioni presenti in tutti i partiti di sinistra, le loro convinzioni erano impermeabili a ogni evidenza del contrario, perciò erano “simili a una fede religiosa”. Praticamente questa casta di intellettuali, non voleva “la rivoluzione per migliorare le condizioni della gente, ma per ottenere il dominio sulla popolazione, e rimodellarla a propria immagine”.

Peraltro a far crollare il regime zarista furono le manchevolezze culturali e politiche che impedirono di adeguarsi alla crescita economica e culturale del paese. Furono queste carenze “a determinare il crollo dello zarismo, non l”oppressione’ o la ‘miseria’”. Pipes, insiste su questo concetto: nonostante tutte le loro rivendicazioni, reali o immaginarie, le ‘masse’ non avevano bisogno di una rivoluzione, e non la desideravano: l’unico gruppo a volerla era l’intellighenzia”.

Pipes a questo punto sconfessa tutti quelli che tendono a vedere la rivoluzione del 1917 influenzata dai fattori sociali e ed economici. “L’insistenza su un presunto malcontento popolare e sul conflitto di classe deriva più da preconcetti ideologici che da fatti concreti, e precisamente dall’idea discutibile che l’evoluzione politica sia guidata sempre e comunque da conflitti socioeconomici[…]”.

Significativa la faccenda che riguarda i disordini sociali dell’ammutinamento della guarnigione di Pietrogrado, si sarebbe potuto fermare se Nicola II avesse scelto di soffocarlo con la stessa brutalità impiegata da Lenin e Trockij quattro anni più tardi nell’affrontare l’insurrezione di Kronstadt e la rivoluzione contadina propagatasi in tutto il paese. “Ma mentre l’unica preoccupazione di Lenin e Trockij era di mantenere il potere, Nicola si preoccupava della Russia”.

L’abbandono di Nicola II.

Infatti Pipes, nel libro racconta il momento dell’abdicazione dello zar, convinto dai suoi generali e i politici della Duma, lascia il potere per salvare l’esercito. Il gesto assomiglia molto a quello di Francesco II, quando lasciò Napoli, sotto l’incalzare dell’arrivo di Garibaldi e dei suoi manutengoli.

Ritornando a Nicola II, “se conservare il potere fosse stato il suo obiettivo supremo, avrebbe potuto facilmente concludere la pace con la Germania e scagliare l’esercito contro gli ammutinati, le fonti non lasciano dubbi sul fatto che la storia dello zar costretto a rinunciare al trono dagli operai e dai contadini ribelli è solo una leggenda. Lo zar non cedette al popolino insorto, ma ai generali e politici, e lo fece per senso del dovere verso la patria”.

Intanto i bolscevichi di Lenin erano padroni solo della Russia centrale, controllavano le città e i centri industriali. Quindi hanno dovuto letteralmente conquistare con le armi i territori secessionisti. “Lenin aveva previsto che la guerra civile sarebbe scoppiata non appena avesse conquistato il potere, anzi, si può dire che conquistò il potere proprio per scatenarla”, scrive Pipes. Sin dallo scoppio della prima guerra mondiale, Lenin, criticava i socialisti pacifisti che chiedevano di porre fine ai combattimenti. “I veri rivoluzionari non desiderano la pace: E’ un motto da borghesucci e da preti. La parola d’ordine dei proletari deve essere: guerra civile”. Erano concordi anche gli altri dirigenti bolscevichi, diceva drasticamente Trockij: “l’autorità sovietica è guerra civile organizzata”. La guerra civile è incominciata subito fin da ottobre 1917, quando Lenin e i bolscevichi hanno rovesciato il governo provvisorio, eliminando i partiti politici rivali. La guerra civile era un punto essenziale del programma politico dei bolscevichi.

Sulla guerra civile Pipes dedica il primo e il secondo capitolo del libro. “La storiografia sovietica, specialmente sotto Stalin, fece di tutto per descrivere la guerra civile come un intervento straniero in cui i russi antibolscevichi avevano il ruolo di mercenari”. Il regime sovietico non poteva apparire di fronte al mondo, in guerra contro i suoi stessi cittadini.

Lenin non fu uno statista ma un capo militare.

Lenin assume subito poteri dittatoriali, “cominciò a smantellare tutte le istituzioni esistenti, così da sgomberare il terreno per un regime in seguito definito ‘totalitario’”. Un regime quello bolscevico,“ ignoto in precedenza nella storia, imponeva sullo stato l’autorità di un ‘partito’, associazione privata ma onnipotente, che si arrogava il diritto di sottomettere l’intera organizzazione sociale senza eccezioni, e realizzava la propria volontà per mezzo di un Terrore sfrenato”. Pipes offre una descrizione del capo bolscevico, la sua importanza storica “non dipende dal suo valore come uomo di stato, perchè non fu certo uno statista di prim’ordine, ma dalle sue doti di capo militare[…]l a sua innovazione, la ragione del suo successo, consisteva nella militarizzazione della politica”. In pratica Lenin, “fu il primo capo di stato a considerare la politica, quella interna come quella estera, una guerra nel vero senso della parola, e a porsi l’obiettivo non di piegare il nemico, ma di annientarlo”. Mi sembra che assomigli molto alle organizzazioni criminali che imperversano nel nostro paese.

Sostanzialmente Lenin si abituò talmente a questo stato di guerra, che “doveva sempre inventare nuovi nemici da attaccare e distruggere: una volta la chiesa, un’altra i socialisti rivoluzionari, un’altra ancora l’intellighenzia”. Per lo storico americano, “l’aggressività”, è la caratteristica costante del regime comunista.

Il libro di Pipes, si sofferma sul fallimento del comunismo, peraltro ormai ammesso anche dagli stessi dirigenti dell’ex Unione Sovietica. Lo storico vuole confutare la tesi di quei apologeti che sostengono che il comunismo aveva alti ideali e il tentativo di instaurarlo è stato fruttuoso. Infatti ci sono ancora quelli che sostengono l’esperimento comunista “utopico”, mentre i bolscevichi non si curarono mai di convergere su quei membri che volevano operare da soli, affascinati dall’utopismo, anzi li liquidavano come “controrivoluzionari”.

I bolscevichi non hanno mai accettato di confrontarsi con gli altri, rifiutavano di ammettere la sconfitta anche quando balzava agli occhi.

Due altre questioni sono chiarite nel libro di Pipes: le affinità tra il regime zarista e quello comunista-bolscevico. E poi la naturale continuità politica tra Lenin e Stalin. Non possiamo andare oltre, è un tema che svilupperemo in un prossimo intervento.

Intanto mentre sto completando questo studio, apprendo dai media l’ennesimo attacco stragista di due terroristi fondamentalisti islamici che hanno assalito una chiesa nel nord della Francia, sgozzando il vecchio parroco mentre stava celebrando la Santa Messa.

LE ANALOGIE TRA IL COMUNISMO SOVIETICO, LO ZARISMO,IL FASCISMO E IL NAZIONALSOCIALISMO.

L’ottimo libro di Richard Pipes, chiarisce alcune questioni che altri libri non hanno il coraggio di chiarire, come per esempio le affinità del regime bolscevico con l’autocrazia zarista, e poi soprattutto con il fascismo mussoliniano e il nazionalsocialismo hitleriano. Leggendo il documentato saggio di Pipes mi convinco sempre più della necessità di riscrivere la storia del Novecento, almeno per non continuare a raccontare frottole alle nuove generazioni.

Similitudine del bolscevismo con lo zarismo.

Sono in tanti a negare l’esistenza di rapporti fra la Russia zarista e quella comunista. Soprattutto gli intellettuali, “preferiscono concentrare l’attenzione sugli obiettivi dichiarati dei comunisti e confrontarli con la realtà dello zarismo”. Ma il quadro cambia quando si va invece a confrontare la realtà comunista con quella zarista.

Il filosofo Nikolaj Berdjaev, ha negato che addirittura si fosse svolta una rivoluzione in Russia. “Si stanno ripetendo tutte le cose esistenti nel passato; solo che operano sotto nuove maschere”. Scrive Pipes sulla rivoluzione d’ottobre: Anche una persona totalmente ignara della realtà russa considererebbe inconcepibile che in un solo giorno, il 25 ottobre 1917, in conseguenza di un putsch armato, il corso della storia millenaria di un paese vasto e popoloso abbia potuto subire una trasformazione radicale. Assai difficilmente le stesse persone[…]avrebbero potuto essere tramutate in creature diverse da un improvviso cambio di governo”.

Lo storico americano sostiene che il regime comunista come si presenta alla morte di Lenin rivela affinità inequivocabili con il governo zarista. A cominciare dell’autocrazia. Tutto il potere legislativo ed esecutivo era concentrato nelle mani dello zar, e lo esercitava senza interferenze. “Sin dal primo giorno al potere, Lenin seguì istintivamente questo modello”. Il partito comunista era il vero dominatore del paese. “Nell’espletamento delle sue funzioni Lenin ricordava gli zar più autocratici, Pietro I e Nicola I, poiché voleva occuparsi personalmente dei dettagli più minuti degli affari di stato, come se fosse un suo possedimento privato”. Addirittura Lenin “era il proprietario delle risorse materiali del paese”, perchè la proprietà di diritto era del “popolo”, considerato come sinonimo del Partito comunista. Era proprietario anche della popolazione, “i bolscevichi ripristinarono il servizio civile obbligatorio, uno dei tratti caratteristici dell’assolutismo della Moscovia[…] I bolscevichi ripristinarono subito l’usanza della moscovita, sconosciuta in qualsiasi altro paese, di richiedere a tutti i cittadini di lavorare per lo stato[…]”. Chi non lo faceva, in conformità agli ordini di Lenin, subiva la pena capitale.

La burocrazia comunista adotta i vecchi sistemi zaristi.

Sostanzialmente per Pipes, i burocrati comunisti, una casta chiusa, regolata da una rigida gerarchia, al di sopra della legge e del pubblico controllo, “acquisirono con assoluta naturalezza i sistemi dei loro predecessori zaristi”. Pertanto per Pipes, “non sorprende che la burocrazia comunista avesse adottato tanto in fretta i vecchi sistemi, dato che il nuovo regime da moltissimi punti di vista perpetuava le vecchie tradizioni. La continuità era agevolata dal fatto che un’alta percentuale delle cariche amministrative sovietiche era detenuta da ex funzionari zaristi, che si portavano dietro abitudini acquisite nel servizio zarista, e le trasmettevano ai nuovi entrati”.

La polizia segreta zarista fu un’altra importante organizzazione che i bolscevichi hanno ripreso, “la Ceka e gli organismi che le succedettero assimilarono a tal punto i sistemi della polizia di stato zarista che ancora negli anni Ottanta il KGB distribuiva al suo personale manuali predisposti dallOhrana quasi un secolo prima”. Tuttavia scrive Pipes,“i bolscevichi si ispirarono a modelli che non trovarono nelle opere di Marx, Engels o di altri socialisti occidentali, ma nella propria storia”.

Naturalmente i bolscevichi si comportarono con una brutalità e una violenza superiore a qualsiasi cosa si fosse mai vista sotto lo zarismo. Certo loro non volevano imitare in tutto i sistemi zaristi, ma furono costretti dalle circostanze. Una volta rifiutata la democrazia,“non avevano altra scelta che governare in modo autocratico. E governare in modo autocratico significava governare il popolo nel modo in cui era abituato”.

Stalin fedele discepolo di Lenin.

Un altro problema controverso sollevato dalla rivoluzione russa è il rapporto fra il leninismo e lo stalinismo. I comunisti, sia i compagni di viaggio, che i simpatizzanti, ancora oggi negano qualsiasi legame fra i due dirigenti comunisti, “affermando che Stalin non soltanto non proseguì il lavoro di Lenin, ma lo distrusse”. Nel libro Pipes dimostra che Stalin già era al lavoro nei tre organi dirigenti del comitato centrale, mentre governava Lenin. Se ci sono differenze di vedute tra i due uomini, si riferivano alla rozzezza e l’impazienza caratteristici della personalità di Stalin. Una differenza c’era però che Lenin non uccideva altri comunisti, mentre Stalin lo faceva su larga scala. Comunque sia, “Stalin era un vero leninista, nel senso che seguiva fedelmente la filosofia e i sistemi politici del suo protettore. Tutti gli ingredienti di quello che è diventato noto come lo stalinismo, salvo uno, l’assassinio di altri comunisti, li aveva appresi da Lenin”.

Lo storico americano continua la sua analisi spiegando perchè il comunismo fu un fallimento colossale. Ma qui mi interessa analizzare le tante analogie tra i tre regimi comunista, nazista e fascista. Richard Pipes avvalendosi di una lunga schiera di studiosi e storici tratta il tema nel V° capitolo del libro.

Le affinità ideologiche tra comunismo, nazionalsocialismo e fascismo.

Il rapporto fra comunismo e “fascismo” è da tempo oggetto di controversie, ci sono gli storici dell’area di sinistra che rigorosamente sostengono che i due fenomeni son inconciliabili, poi ci sono i cosiddetti conservatori che li includono entrambi nella categoria del “totalitarismo”. Il problema è delicato, Pipes cerca di “esaminare l’influenza esercitata sulla politica occidentale dal comunismo, sia come modello da emulare sia come minaccia da sfruttare”. Pipes è convinto che dopo aver studiato le origine dei movimenti estremisti di destra sorti in Europa fra le due guerre, “risulta subito evidente che essi sarebbero stati inconcepibili senza il precedente stabilito da Lenin e Stalin”. Lo studioso americano si meraviglia del fatto che storici e politologi abbiano ignorato questo aspetto, soprattutto per quanto riguarda la presa del potere del nazismo, dove emergono continuamente analogie di metodi impiegati tra Hitler e Lenin.

Allora Pipes cerca di rispondere alla domanda perchè la letteratura relativa al fascismo e al totalitarismo abbia ignorato l’esperienza sovietica. Intanto perchè per gli storici di sinistra e poi all’interno dell’Urss, il fascismo è stato considerato l’antitesi del socialismo e del comunismo. Un altro motivo per Pipes è perchè per molto tempo agli occidentali rimase nascosta la vera natura del regime comunista e peraltro è stato studiato poco, almeno durante le due guerre. Un terzo fattore che impedì di analizzare l’influenza del bolscevismo su fascismo e nazionalsocialismo, “fu la determinazione con cui Mosca riuscì a bandire dal vocabolario del pensiero “progressista” l’aggettivo “totalitario”, in favore di “fascista”, per descrivere tutti i movimenti e i regimi anticomunisti”. Il Komintern decise che si applicava il termine “fascista” a tutte le dittature in Europa, comprese quelle “benigne come quelle di Antonio Salazar in Portogallo e di Pilsudski in Polonia”, sempre secondo il Komintern tutte erano prodotte dal “capitalismo finanziario” e strumenti della borghesia.

Le prime analisi del fenomeno totalitario del regime comunista furono effettuate dagli storici tedeschi, che avevano avuto l’esperienza del nazismo. Anche se poi questi storici sono stati tutti aggrediti verbalmente, ma anche in altri modi come Renzo De Felice, perchè avevano avuto la temerarietà di associare in qualche modo Mussolini o Hitler con il comunismo. Pipes accenna a quei storici seri che mettono in discussione il termine “totalitario”, perché secondo loro “nessun regime è mai riuscito a imporre la totale politicizzazione e il controllo assoluto”. Ovunque rimangono residui pluralistici più o meno significativi.

Mussolini e Hitler simili a Lenin.

Pipes risponde alla domanda perchè è importante lo studio del fascismo italiano e del nazionalsocialismo tedesco in relazione alla rivoluzione russa. Pipes formula almeno tre motivi. “Innanzitutto, Mussolini e Hitler si servirono dello spettro del comunismo per terrorizzare la popolazione e convincerla a conferire loro poteri dittatoriali. In secondo luogo, entrambi impararono moltissimo dalle tecniche bolsceviche, quando crearono un partito fedele alla loro persona per prendere il potere e instaurare una dittatura monopartitica. Sotto entrambi gli aspetti il comunismo influenzò più il ‘fascismo’ che il socialismo e il movimento sindacale. E in terzo luogo, la letteratura sul fascismo e sul nazionalsocialismo è più ricca e più sofisticata di quella sul comunismo: conoscerla aiuta a comprendere assai meglio il regime prodotto dalla rivoluzione russa”.

Certo non si può dire che il fascismo e il nazismo siano stati “provocati” dal comunismo. Però si può sostenere che “tutti gli attributi del totalitarismo avevano antecedenti nella Russia di Lenin: un’ideologia ufficiale onnicomprensiva; un partito unico di eletti, guidato da un ‘capo’ che dominava lo stato; il terrore poliziesco; il controllo dei mezzi di informazione e delle forze armate da parte del partito dirigente; il controllo centralizzato dell’economia[…]” Continua Pipes nelle sua tesi: “Nessun eminente socialista di prima della grande guerra somigliava più a Lenin di Benito Mussolini. Come Lenin, Mussolini dirigeva l’ala antirevisionista del partito socialista del suo paese[…]Avrebbe potuto benissimo diventare un Lenin italiano, se non si fosse fatto espellere dal PSI nel 1914[…]”. Mussolini allo stesso modo di Lenin risolse il problema di fare la rivoluzione senza avere dalla loro parte la classe degli operai, vi riuscirono,“ricorrendo alla creazione di un partito elitario che instillasse nei lavoratori lo spirito della violenza rivoluzionaria”.

Pipes ci informa che Mussolini “non nascose mai la propria simpatia e ammirazione pe ri comunisti, nemmeno come capo dei fascisti: aveva un’alta opinione dell’energia brutale’ di Lenin, e non trovava nulla da obiettare per i massacri di ostaggi compiuti dai bolscevichi”. Addirittura, “riconosceva con orgoglio il comunismo italiano come una propria creatura”.

Le rivoluzioni di “destra” e di “sinistra”.

Pipes dai suoi studi fa emergere che sbagliano quelli che hanno considerato quella del fascismo e del nazionalsocialismo non rivoluzioni, ma insurrezioni nazionalistiche. Invece sono delle vere rivoluzioni che magari possono essere definite di “destra”, che si scontrano con quelle di “sinistra”, ma “il fatto che i due schieramenti si contrappongo come nemici mortali deriva dalla competizione per la conquista di una massiccia base, non dal disaccordo su metodi e obiettivi”. Sia Hitler che Mussolini si consideravano rivoluzionari, per Rauschining, il nazionalsocialismo era più rivoluzionario del comunismo o dell’anarchismo.

Ma l’affinità più significativa fra i tre movimenti totalitari, secondo Pipes, riguarda l’ambito psicologico: “il comunismo, il fascismo e il nazionalsocialismo esacerbavano e sfruttavano il risentimento popolare di origine classista, razziale ed etnica, per conquistare l’appoggio delle masse e confermare l’idea che fossero loro, e non i governi democraticamente eletti, a esprimere realmente la volontà del popolo. Tutti e tre facevano appello al sentimento dell’odio”. Per Pipes che cita il libro, “La rivoluzione francese” del grande storico francese Pierre Gaxotte, furono i giacobini per primi a comprendere le potenzialità politiche del risentimento di classe. Poi Marx “partì dallo studio della rivoluzione francese e delle sue conseguenze per formulare la teoria della lotta di classe come caratteristica dominante della storia”.

Pertanto, secondo Pipes,“i movimenti rivoluzionari, siano essi di destra o di sinistra, devono avere un bersaglio da odiare, perchè è immensamente più facile indurre le masse a schierarsi contro un nemico visibile che in favore di un’astrazione”.

Pipes descrive come era considerato il partito per le tre organizzazioni totalitarie, i veri partiti tradizionali cercano di accrescere il numero degli iscritti, quello comunista, fascista, nazista “erano elitarie per natura”. L’ammissione non era facile, assomigliavano a confraternite. “Il modo in cui il Partito bolscevico, quello fascista e quello nazista si impadronirono dell’amministrazione nei rispettivi paesi fu praticamente identico”. Certo Pipes fa delle distinzioni, per quanto riguarda la liquidazione degli oppositori dei regimi, benchè Mussolini si pronunciasse a favore della violenza, “il suo regime, rispetto a quello sovietico e a quello nazista, era davvero moderato e non ricorse mai al terrore di massa”.

La manipolazione delle masse nei regimi totalitari.

Interessante la riflessione di Pipes sul popolo che in pratica era esautorato, non partecipava a qualsiasi attività politica, non aveva alcuna voce nelle decisioni politiche, anche se la sua non partecipazione, aveva bisogno di un qualche surrogato. I surrogati – scrive Pipes – sono di due generi: ‘elezioni’ farsa, in cui il partito al potere si aggiudica regolarmente il novanta per cento o più dei voti; e grandiosi spettacoli che creano l’illusione del coinvolgimento di massa”. Allora si ricorre alle parate, alle adunate, ai spettacoli teatrali all’aperto, lo hanno fatto per primi i giacobini.

Le masse erano manipolate”, “la folla diventava una personalità collettiva specifica” secondo i principi stabiliti dal sociologo Gustave Le Bon in un libro, “Psicologia delle folle”, libro letto da tutte e tre i nostri capi partito. Pipes riconosce quei metodi, nell’occupazione di Fiume dal poeta-politico Gabriele D’Annunzio, “il susseguirsi dei festeggiamenti in cui D’Annunzio svolgeva il ruolo del protagonista doveva abolire la distanza tra il capo e i suoi seguaci, e i discorsi dal balcone del palazzo municipale alla folla sottostante (accompagnati da trombe) avevano lo stesso scopo”. Sia Mussolini che gli altri dittatori moderni “consideravano questi metodi indispensabili, non per l’intrattenimento, ma come rituali destinati a dare agli oppositori e agli scettici l’impressione di un legame inscindibile fra governanti e governati”.

Nelle adunate, nei raduni o spettacoli all’aperto, sono stati insuperabili i nazisti, come non ricordare tutti quegli “uomini in uniforme allineati come soldatini di piombo”.

La distinzione tra regimi autoritari e totalitari.

Concludo il mio studio, che doveva essere un articolo, con la puntuale distinzione dello storico americano, tra l’”autoritarismo” e il “totalitarismo”. Tra i regimi autoritari e quelli totalitari di Lenin, Hitler e Mussolini, anche se quest’ultimo per alcuni studiosi può essere catalogato in quelli autoritari. Pipes riferendosi agli studi di Karl Loewenstein, così distingueva i due sistemi:“[…]Di regola il regime autoritario si limita al controllo politico dello stato senza aspirare alla dominazione totale della vita socioeconomica della comunità…Il termine ‘totalitario’ invece si riferisce al dinamismo socioeconomico, al modo di vivere di una società statalizzata[…]”.

Tuttavia per Pipes, la distinzione fra i due tipi di regimi antidemocratici è fondamentale per capire la politica del XX secolo. E polemicamente così si pronuncia: Solo per una persona irrimediabilmente intrappolata nella fraseologia marxista-leninista potrebbe risultare difficile comprendere la differenza fra la Germania nazista e, diciamo, il Portogallo di Salazar o la Polonia di Pilsudski. Contrariamente ai regimi totalitari, che cercano di modificare alla radice la società esistente e persino di rifare l’uomo, i regimi autoritari sono difensivi, e in questo senso conservatori. Nascono quando le istituzioni democratiche, sopraffatte da interessi politici e sociali inconciliabili, non riescono più a funzionare come si deve. In fondo – scrive Pipes – sono degli strumenti per prendere decisioni politiche con maggiore facilità”.

In particolare i governi autoritari per governare fanno riferimento alle “fonti tradizionali di supporto, e ben lungi dal tentare di impegnarsi nell’ingegneria’ sociale, cercano di conservare lo status quo”. Infatti scrive Pipes in tutti i paesi, ogniqualvolta i dittatori autoritari sono morti o sono stati spodestati, i loro paesi non hanno avuto grandi difficoltà nel restaurare la democrazia. Si veda il caso Augusto Pinochet in Cile o quello di Francisco Franco in Spagna.

Pertanto e concludo veramente, in base a questi criteri per Pipes, “soltanto la Russia bolscevica all’apice dello stalinismo può essere definita uno stato totalitario pienamente sviluppato”. Forse neanche la Germania nazista, nonostante copiasse i provvedimenti bolscevichi, “non fu all’altezza di quanto Lenin aveva progettato e Stalin realizzato”.

 

S. Teresa di Riva ME, 30 luglio 2016

S. Pietro Crisologo vescovo dott.                                        Domenico Bonvegna

                                                                                      domenico_bonvegna@libero.it

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