GUAI A PARLARE MALE DI GARIBALDI.

IL MITO DI GARIBALDI TRA UNITA’ E RISORGIMENTO. GARIBALDI, SPADA DELLA RIVOLUZIONE IN ITALIA. GARIBALDI ALLA GUIDA DELLA MASSONERIA PER “FARE GLI ITALIANI”.

Ho appena finito di leggere il libro di Francesco Pappalardo, “Il Mito di Garibaldi. Una religione civile per la nuova Italia”, Sugarcoedizioni (Milano 2010, pp.234, euro 18,50).

Il testo di Pappalardo, tra i tanti libri che ho letto sulla storia del Risorgimento e sui cosiddetti “padri della Patria”, mi sembra il più scientifico e più ricco di documenti. Il testo non si limita a raccontare la vita più o meno eroica di Giuseppe Maria Garibaldi, ma va a fondo per scoprire la cultura filosofica che sta dietro la figura del nizzardo e a tutte le altre figure che hanno segnato la storia dell’Ottocento. E soprattutto il libro mette in luce quella “liturgia civile”, nata dall’opera garibaldina, totalmente svincolata dalla tradizione religiosa del nostro paese. Il libro amplia il campo d’indagine con un arricchimento bibliografico e documentale della precedente pubblicazione per conto dell’edizione Piemme del 2002.

Il “Mito di Garibaldi” si apre con una Presentazione (pp. 7-10) di Alfredo Mantovano, ex sottosegretario agli interni, che critica certe interpretazioni riduttive delle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità italiana, si dovrebbe evitare il duplice errore di un’apologia acritica e di una svalutazione preconcetta. Occorre invece evidenziare che l’Italia, già prima del 1861, aveva una precisa identità, risultato del lascito culturale greco-romano inverato nel cristianesimo in un contesto politico policentrico, e rinsaldata dalla plurisecolare resistenza ai nemici esterni”.

Pertanto il tentativo di stravolgere l’identità italiana ha provocato: la nascita della ‘questione cattolica’, frutto della rivoluzione risorgimentale, che voleva ‘rifare gli italiani’. l’origine della ‘questione meridionale’, causata dal modo violento di annessione del Regno delle due Sicilie, con “la dispersione significativa delle ricchezze culturali del regno”. Infine la distruzione d’innumerevoli istituzioni. Indubbiamente nelle celebrazioni del 150° si è perso l’ulteriore occasione di una vera riflessione critica del cosiddetto processo risorgimentale e la verità sulle modalità di raggiungimento dell’unità del Paese.

Nell’introduzione, la nascita del mito (pp. 11-27), l’autore affronta l’argomento della nascita del mito di Garibaldi e soprattutto evidenzia come con la rivoluzione risorgimentale è stata costruita una leggenda anticattolica, con caratteristiche ben precise che si può parlare di una vera e propria “religione civile”, di cui Garibaldi è l’icona più duratura. Garibaldi, eroe romantico, diventa “protagonista di quella religione civile che avrebbe dovuto cementare lo spirito del nascente Stato italiano”Questa nuova religione operata dalla lotta dei “patrioti”, doveva porre fine alla decadenza italiana prodotta dalla Controriforma. Ogni aspetto della vita di Garibaldi viene enfatizzato come le imprese in Sudamerica (corsaro e guerrigliero) o l’incontro con Ana Maria Jesus Ribeiro, detta Anita. Nascondendo la realtà sul matrimonio e la morte, “tuttora avvolta da un alone di mistero”. Tra l’altro, l’autopsia del cadavere, dimostra che la morte è avvenuta per strangolamento.

I discorsi, i proclami, gli abiti e i comportamenti sono accuratamente studiati; gli oggetti a lui appartenuti diventano reliquie; le sue biografie e le memorie sono “rivisitate” e prontamente stampate; non è trascurata neanche l’arte fotografica, allora ai primordi; e nella ritrattistica Garibaldi assume perfino le sembianze di Cristo Salvatore. E’ stata creata un’immagine ad arte attraverso la trasformazione fantasiosa della sua personalità e, spesso, dei fatti che lo hanno visto protagonista. Si tratta di un’opera di trasformazione “promozionale”, sponsorizzata e procurata nei salotti buoni inglesi, senz’altro la più grande e più incisiva di tutto l’Ottocento. Il ritiro a Caprera, è l’apoteosi della leggenda: è un novello Cincinnato, che si estranea dall’agone politico e militare in povertà. A partire dal 1870, il mito è già una realtà cristallizzata, “pietrificata”, che trova un riscontro nella “moltiplicazione di lapidi, monumenti ed epigrafi” (p. 26).

Il primo capitolo, La formazione politica e militare di Garibaldi (pp. 29-70), Pappalardo descrive l’ambiente familiare e la formazione ideologica del giovane nizzardo, con riferimento al contesto storico sociale e politico dell’Europa, e della Restaurazione. Il libro di Pappalardo dà uno sguardo panoramico all’epoca storica, caratterizzata dal ritorno dei legittimi sovrani dopo l’uragano napoleonico. Più che restaurazione si è trattato di una “ristrutturazione”, ci si “accontenta di riportare la calma in superficie, nell’illusione di disarmare le idee rivoluzionarie con una politica di conciliazione”. Metternich cerca di conciliare i principi dell’assolutismo illuminato del secolo XVIII, con le novità politiche dell’età napoleonica, per creare un sistema di governo accentratore, con un potere statale a scapito della società. Per giunta con la restaurazione scompaiono le antiche repubbliche aristocratiche di Genova e di Venezia, assorbite dal Regno di Sardegna e dall’Impero d’Austria.

Sostanzialmente le nuove monarchie amministrative, intrise di forte statalismo, finiscono“per scontentare tutti: nostalgici dell’antico regime, cripto-liberali, epigoni della Rivoluzione”.

In questo periodo nasce la corrente filosofica letteraria del Romanticismo, che Galli della Loggia chiama, “la prima grande moda di massa, quella che potremmo davvero definire il Sessantotto dell’Ottocento”. A questa cultura si agganciano gli eredi della tradizione giacobina e napoleonica, che si riorganizzano in numerose società segrete, che generano nuove forme di aggregazione sociale, quali i club, i caffè, i salotti e le redazioni dei giornali.

Il romanticismo agisce sui singoli, nella sfera privata, trasformandoli in soggetti passionali, impulsivi, insoddisfatti del mondo, propensi alla malinconia. “Non è un caso che fra i protagonisti del Risorgimento solo pochi godono di una regolare vita matrimoniale”. Come reazione all’universalismo della Chiesa cattolica dell’Impero d’Austria, nasce l’ideologia astratta del nazionalismo che intende distruggere entrambi.

Tuttavia sempre in questo periodo in Italia, operano attivamente alcune organizzazione laiche e religiose in difesa della propagazione della fede, che intendono dare un carattere di maggiore profondità e incisività alla restaurazione.

Sono esemplari le opere del gesuita bernese Nikolaus Albert von Diessbach, il venerabile Pio Bruno Lanteri, dell’Amicizia Cristiana, a Napoli il teatino palermitano Gioacchino Ventura di Raulica, e poi il ministro di polizia napoletano Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, passato alla storia ufficiale come un bieco reazionario.

GARIBALDI, SPADA DELLA RIVOLUZIONE IN ITALIA.

Nel 2° capitolo del libro,Francesco Pappalardo, esamina il quadro politico che ruota intorno alle gesta del nizzardo. Il fallimento dei moti rivoluzionari mazziniani, del 1843-44, fa venire meno l’opzione repubblicana, mentre avanza quella federalista, ritenuta più realistica, rispetto alla prospettiva unitaria e comunque da attuare gradualmente, salvaguardando l’autonomia, sia del Regno delle due Sicilie che dello Stato Pontificio.

Pertanto, si prospettano le soluzioni sostenute da Vincenzo Gioberti, del beato Antonio Rosmini, nonché quelle repubblicane e rivoluzionarie dei milanesi Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. Anche il papa Pio IX propone una Lega doganale italiana.
Interessante la prospettiva di Rosmini nel saggio “Sull’unità d’Italia”, osserva che “ogni progetto politico deve partire dalle considerazioni dell’Italia reale, con le sue differenze geografiche, la varietà delle stirpi, le differenti consuetudini, i dialetti e i diversi reggimenti politici”.

Intanto dopo il breve periodo dell’equivoco del Papa “liberale”, creato ad arte dalle varie lobby rivoluzionarie, con l’assassinio del ministro Pellegrino Rossi, nasce la Repubblica Romana e Pio IX è costretto a rifugiarsi a Gaeta. In poco tempo i rivoluzionari, su iniziativa di Zambianchi e di Garibaldi, cominciano a perseguitare e uccidere numerosi sacerdoti. Dappertutto si verificano violenze e assassinii. Gli storici hanno potuto affermare che la Repubblica a Roma è nata grazie all’apporto di migliaia di repubblicani che giunsero da tutte le parti del mondo, pochissimi i romani che l’hanno sostenuta, a parte il folto gruppo di trasteverini, guidati dal capopopolo Ciceruacchio.

Con l’arrivo delle truppe di Luigi Napoleone, si conclude l’esperienza repubblicana di Roma. Garibaldi e compagni sono costretti a fuggire, nella ritirata sono attaccati dalla popolazione civile, e Garibaldi, in circostanze poco chiare perde la moglie Anita. Nel 1850 Garibaldi si trasferisce a New York, accolto da esuli politici italiani e dai massoni.
Intanto nel Regno di Sardegna prende corpo una legislazione anticlericale, inizia la persecuzione del clero, si arrestano i parroci più critici.

Entra in scena Camillo Benso conte di Cavour, che fa del Regno di Sardegna un punto di riferimento del movimento liberale e dei moderati unitari. Cavour, imparentato con finanzieri ginevrini di origine ugonotta e vicino ad ambienti massonici, divenuto presidente del Consiglio dal 1852, continua l’opera in modo più radicale: accoglie nel regno dissidenti politici espatriati, rivoluzionari, massoni, militari, tecnici e intellettuali e, alleandosi con la sinistra di Urbano Rattazzi (1808-1873), sopprime le comunità religiose ritenute “non produttive”.
Con gli arresti dell’arcivescovo di Torino, mons. Luigi Fransoni e dell’arcivescovo di Sassari, mons. Alessandro Domenico Varesino e l’espulsione dal regno dell’arcivescovo di Cagliari, mons. Giovanni Emanuele Marongiu Nurra, segnano l’inizio della persecuzione violenta nei confronti degli uomini di Chiesa. Nel discorso alla Camera dell’11 gennaio 1855 il conte Solaro della Margarita denuncia gli  “(…)atti violenti, illegali commessi contro varie case religiose prese di assalto, con apparato d’armi, di nottetempo, quasi covi di malandrini”, definendo la soppressione delle corporazioni religiose “un sacrilego latrocinio”.

Nel 1854 Garibaldi ritorna in Italia, e dopo aver ritenuto sterile e fallimentare l’azione terroristica e insurrezionale, si converte alla prospettiva unitaria imperniata sul Regno di Sardegna: “In Piemonte vi è un esercito di quaranta mila uomini, ed un re ambizioso”. Così secondo Pappalardo, “la scelta di Garibaldi si rivela un fattore decisivo nel realizzare la convergenza temporanea delle due correnti rivoluzionarie, quella insurrezionale e repubblicana e quella ‘legalitaria’ e sabauda del conte di Cavour”.
Naturalmente la politica italiana dipende dagli avvenimenti europei, in particolare dagli scontri tra la Francia, l’Inghilterra e l’Impero Russo. Cavour cerca di trarne vantaggi per la sua politica di espansione nella penisola italiana, così riesce a far prendere in considerazione il suo disegno di espellere l’impero asburgico dalla penisola italiana e di procedere ad “annessioni parziali a vantaggio del Regno di Sardegna” (p. 118). Incontra quindi Giuseppe La Farina (1815-1863), fondatore della Società Nazionale, con cui elabora, con regolarità ma in segreto, piani rivoluzionari, ed entra in contatto anche con Garibaldi, nella speranza di realizzare fatti compiuti che la diplomazia europea non sarebbe riuscita a fermare.

Il fallimento della spedizione nel Cilento di Carlo Pisacane convince altri democratici e repubblicani a prestare attenzione alla linea realistica di Garibaldi di fare la Rivoluzione attraverso la casa regnante sabauda. Per il momento a Mazzini politico si può “cantare il requiem aeternam”.
Il terzo capitolo del libro approfondisce il contributo del Generale alla realizzazione del progetto unitario, dalla spedizione dei Mille all’invasione degli Stati della Chiesa. Della spedizione in Sicilia, punto debole del regno borbonico, si occupa l’esule Francesco Crispi. Infatti in Sicilia, era presente una certa aspirazione autonomistica e poi c’era un’aristocrazia liberaleggiante.
Nel frattempo la Società Nazionale si occupa dei finanziamenti — fondi consistenti giungono da New York e da ambienti massonici —, del reclutamento e delle armi: ben ventuno spedizioni porteranno in Sicilia quindicimila uomini e undicimila fucili, a bordo di navi battenti bandiera statunitense e protette a distanza dalle unità dell’ammiraglio Carlo Pellion conte di Persano (1806-1883).

Il 5 maggio 1860 Garibaldi salpa da Quarto e sei giorni dopo sbarca a Marsala. L’azione militare è favorita anche dal tradimento di alcuni alti ufficiali borbonici, allettati da promesse di avanzamento di carriera fatte loro dagli agenti sardi. A Calatafimi Garibaldi è vittorioso a causa dell’imperizia del generale Francesco Landi (1792-1861), già cospiratore carbonaro, mentre il generale Ferdinando Lanza (1785-1865), comandante delle forze borboniche nell’isola, pur in posizione di forza, tratta la resa con Garibaldi, trascurando le difficoltà in cui questi si dibatte: la chiamata alle armi dei siciliani fallisce; nelle campagne regna il caos e si registrano l’occupazione di terre e una lunga serie di violenze, fra cui il massacro di Bronte, compiuto da Gerolamo “Nino” Bixio (1821-1873) per salvare i possedimenti inglesi della Ducea di Bronte.

LA FINE DEL REGNO DI FRANCESCO II, IL BRIGANTAGGIO E LA QUESTIONE MERIDIONALE.

 E’ giusto ribadire che far conoscere la verità su come è stato fatto fuori il Regno di Francesco II e successivamente come è stato “pacificato” il Meridione d’Italia, non vuol dire promuovere una“operazione nostalgia”, né tantomeno attentare all’unità nazionale.
Pertanto il coinvolgimento del governo sardo nell’operazione conquista del Sud è stato sostenuto dagli stessi protagonisti come Nino Bixio, che ha ricordato in Parlamento, l’8 settembre 1863, i meriti patriottici del vice ammiraglio Persano: “Quando noi eravamo a Palermo (mi rincresce che debbo dir cose che dovrebbero forse rimanere un po’ più nel silenzio, ma poiché si citano fatti, io debbo contrapporne altri)…ebbi l’incarico più volte di andare dal vice-ammiraglio Persano per cose che erano abbastanza delicate e difficili, giacchè, sapendosi, si sarebbero scoperti gli aiuti che si ricevevano dal Governo…”

Anche La Farina nella seduta della Camera del 16 giugno 1863, sosteneva che: “(….) il partito capitanato dal conte di Cavour aiutò la spedizione con tutti i mezzi: e mentre l’Europa grida (…) mentre tutta la diplomazia non ha che un grido di riprovazione contro quest’atto ultrarivoluzionario, il conte di Cavour continua a dare aiuti alla spedizione di Sicilia”.

Inoltre, ormai è ammesso da tanti storici seri, che la partecipazione popolare alla conquista del regno è limitata e comunque si esaurisce non appena sono chiari gli scopi politici — l’annessione dell’ex Regno di Sicilia al costituendo Regno d’Italia — e socio-economici, cioè la salvaguardia dell’ordine esistente, come risulterà chiaro a Bronte, dove lo stesso Garibaldi autorizza la strage, ordinando al governatore di Catania d’inviare “[…] immediatamente una forza militare atta a sopprimere li disordini che vi sono in Bronte che minacciano le proprietà inglesi”.

Intanto Francesco II, mal consigliato, concede un’amnistia per i crimini politici, autorizza la sostituzione della bandiera gigliata con il tricolore rivoluzionario e nomina ministro di polizia il massone Liborio Romano (1793-1867).

Sul continente l’avanzata garibaldina è favorita dai grandi proprietari terrieri, spesso usurpatori di beni demaniali ed ecclesiastici, che di fronte all’impotenza delle autorità borboniche difendono i propri possedimenti. I soldati napoletani, spesso abbandonati dai comandanti, tentano di raggiungere le proprie case o il re Francesco II che, per evitare danni alla popolazione civile, ha lasciato la capitale e si è ritirato a Gaeta con la regina Maria Sofia di Wittelsbach (1841-1925).

Garibaldi entra a Napoli applaudito dal popolo radunato dalla camorra.

Si conclude così, l’episodio più celebrato del Risorgimento, l’unico che potrebbe rivendicare i caratteri di epopea popolare, si configura dunque sostanzialmente come un’operazione di pirateria al servizio dell’idea unitaria e degli interessi britannici — come una riedizione in scala più ampia, tutta da meditare in sede storiografica, delle imprese uruguayane di Garibaldi —, compiuta da un gruppo di uomini armati non aventi alcuna legittimazione giuridica e condotta contro le più elementari norme del diritto internazionale, con l’obbiettivo di ribaltare le istituzioni legittime di uno Stato sovrano da sempre riconosciuto dal consesso delle nazioni e benedetto dalla suprema autorità spirituale.
Cavour dopo il successo della spedizione garibaldina, ingiunge al Papa di congedare i ventimila volontari cattolici, accorsi dall’Europa e dal Canada per difendere la Santa Sede, e senza attendere la risposta pontificia ordina al generale Enrico Cialdini (1811-1892) d’invadere gli Stati della Chiesa. L’esercito papalino è sconfitto a Castelfidardo, nelle Marche, e Ancona si arrende dopo un bombardamento navale proseguito anche dopo la resa. I montanari marchigiani e umbri insorgono contro gli invasori, che tuttavia non si arrestano e invadono, da nord, il Regno delle Due Sicilie. Cavour decide per l’immediata annessione del Mezzogiorno dopo un plebiscito, svoltosi con voto palese e sotto il controllo della camorra.

Il 26 ottobre Garibaldi “consegna” il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II e si ritira a Caprera. Intanto Francesco II il 13 febbraio 1861 è costretto ad abbandonare la fortezza di Gaeta e parte per l’esilio. Subito dopo inizia la resistenza popolare contro gl’invasori che si estende all’intero regno, bollata però come “brigantaggio”. Con l’intento dichiarato di non fare prigionieri, secondo gli ordini del generale Enrico Morozzo della Rocca (1807-1897), si scatena una durissima repressione. Migliaia di soldati irriducibili del Regno delle Due Sicilie subiscono la deportazione nei campi di concentramento piemontesi di San Maurizio Canavese e del forte di Fenestrelle, molti la fucilazione.

La “normalizzazione” sabauda passa anche attraverso la spoliazione economica: le spese sostenute per l’invasione sono poste a carico dei napoletani, s’inasprisce la pressione fiscale, le industrie meridionali perdono le commesse statali, viene epurato il personale amministrativo e politico ed è introdotta la legge sarda del 1855 sulla soppressione degli ordini religiosi. Si apre la Questione Meridionale

Studi non viziati da pregiudizi e stereotipi, ormai hanno messo in discussione l’impostazione tradizionale della cosiddetta questione meridionale, soprattutto quella di tipo economico, è chiaro che “alla data dell’Unità non vi fossero differenze tra le due aree del paese”, mentre negli anni successivi all’unificazione, “(…)il declino del Mezzogiorno è un processo continuo fino alla metà del Novecento(…)” Pappalardo sul fenomeno del brigantaggio, parla di contrasto, di due mentalità, di due differenti impostazioni culturali e cita Galli della Loggia, che vede nella questione meridionale,“una diversità etico-antropologica radicale, che diventa un problema per l’identità nazionale italiana. Mentre l’antropologo e sociologo Carlo Tullio Altan, vede addirittura una “reazione di rigetto della società meridionale”, fino ad arrivare ad “uno scontro di civiltà”.

Il 17 marzo è proclamato a Torino il Regno d’Italia, così scrive Giovanni Cantoni: la nazione italiana, prima una nella fede e nella diversità, viene unita nell’errore, cui si accompagna l’imposizione spesso crudele di una uniformità che è piuttosto rivoluzionaria che piemontese. Cadono tutte le Case regnanti, vengono disperse tutte le classi dirigenti che hanno servito la cristianità a diverso titolo fin nelle terre più lontane, le differenze regionali e storiche sono interamente bandite, la religione e i suoi ministri perseguitati”.

GARIBALDI ALLA GUIDA DELLA MASSONERIA PER “FARE GLI ITALIANI”.

Il 4° ed ultimo capitolo del libro di Pappalardo, “Garibaldi e il Risorgimento”, si occupa della questione ideologica del Risorgimento. In pratica il nuovo Stato italiano, sorto in maniera così avventurosa, deve legittimarsi tanto sul piano interno quanto su quello internazionale e non è un’impresa facile, almeno per quanto riguarda la nostra penisola, perché la maggioranza del popolo italiano è completamente estranea al nuovo ordine.

Pertanto, “le ristrette élite politiche e intellettuali del Risorgimento, che rappresentano inizialmente un elettorato non superiore al due per cento della popolazione, si attribuiscono il compito di consolidare le basi del traballante Stato unitario”.
Questa élite liberale, spesso legata alle varie logge massoniche, sceglie ideologicamente di unificare il Paese estendendo al massimo la presenza dello Stato, e così, viene introdotto l’istituto del prefetto, sono limitati i ruoli decisionali dei comuni, unificati i sistemi monetari; si omogeneizzano tutte le istituzioni, si crea un forte Stato centralista. Parallelamente nasce una politica anticattolica, sotto la guida di quello che il sociologo delle religioni Massimo Introvigne chiama “(…) partito anti-italiano. Per questo partito ‘fatta l’Italia’ non si trattava soltanto di ‘fare gli italiani’; si trattava piuttosto di fare l’Italia contro gli italiani, o di disfare il tradizionale ethos italiano radicato nel cattolicesimo per costruire un ethos nuovo, progettato a tavolino, modellato sulle presunte caratteristiche delle più avanzate nazioni protestanti europee”.

Del resto lo aveva già detto, Massimo D’Azeglio, nel 1849, per lui il problema non sono gli austriaci, ma gli italiani, che sono “troppo” cattolici. Lo stesso pensiero è presente in Garibaldi, che si fa promotore di una cultura popolare basata su una nuova religione civile, anticattolica, diffusa con “[…] la distribuzione capillare di opuscoli e di catechismi che attribuiscono a lui la vera rappresentanza della legge di Cristo contro le imposture del Papa” . In sostanza, era un tentativo insidioso di «rieducazione» popolare, volto a disfare il tradizionale ethos italiano fondato sul cattolicesimo per costruire un ethos nuovo. Infatti, Garibaldi, riteneva, che la lacerazione fra «paese legale» e «paese reale», evidente fin dai primi giorni di vita del nuovo Stato unitario, fosse la conseguenza del radicamento della cultura religiosa presso la stragrande maggioranza della popolazione.

“In effetti la massoneria italiana – scrive Pappalardo – condiziona l’agire politico sia dei moderati che dei rivoluzionari: tutta la classe politica, la burocrazia, le forze armate, la magistratura, il mondo dell’istruzione ne sono influenzati; la scuola e l’esercito sono gli strumenti usati per un’ampia iniziativa pedagogica nei confronti della società italiana.

Garibaldi diventa l’ispiratore dei ministri dell’Istruzione, Francesco De Sanctis (1817-1883), Michele Coppino (1822-1901) e Guido Baccelli (1830-1916), tutti affiliati alla massoneria. L’obbligatorietà del servizio militare, imposto anche ai chierici, è vissuta come un sopruso, che genera, in numero elevatissimo, renitenza alla leva, diserzioni e suicidi. L’“alfabetizzazione patriottica dei ceti popolari” passa anche attraverso forme di sacralizzazione della monarchia e una massiccia rivoluzione toponomastica.

Il Generale è oggetto di venerazione ovunque; sorgono il “partito di Garibaldi” e poi il “garibaldinismo”, “termine indicante un fenomeno mentale prima che sociale”

In questo condizioni nasce il mito della Roma da liberare e da “rigenerare” perché soggetta alla “tirannia” papale. Nell’attesa di un’insurrezione dell’Urbe, che non avverrà mai, fra il 1866 e il 1867 vengono soppresse moltissime istituzioni ecclesiastiche, regolari o secolari: il passaggio dei beni di oltre venticinquemila enti alla borghesia fondiaria ha fortissime ripercussioni sociali e apre la strada al proselitismo dei socialisti in vasti strati della popolazione.

Tuttavia la persecuzione rende i cattolici sempre più consapevoli della necessità di “[…] un’effettiva sovranità territoriale per consentire al Pontefice il libero compimento della sua missione”, come implicitamente sostiene Papa Pio IX, nel dicembre 1864, condannando con il Sillabo due proposizioni relative al principato civile del Pontefice e alla sua libertà.

Garibaldi si fa promotore di una “crociata umanitaria” contro il Pontefice, perché “la teocrazia papale è la più terribile delle piaghe del mio povero paese, resa insanabile da 18 secoli di menzogne, di persecuzioni, di roghi e di complicità con tutti i tiranni d’Italia”. Ormai la lotta contro il clero cattolico è il fulcro del suo impegno politico. Naturalmente questo suo furore irreligioso è dovuto alla sua iniziazione massonica, avvenuta nel 1844, in Uruguay.

“Non va dimenticato, peraltro, – per Pappalardo – che in Garibaldi l’anima razionalista e negatrice del mistero coesiste con quella occultistica. Nel 1863 accetta la presidenza onoraria di una società spiritica veneziana e nel 1881 — pur avendo spesso optato per una struttura «aperta», al fine di facilitare la comunione dei diversi corpi massonici e fare della massoneria il perno di quel fronte laico e radicale che avrebbe dovuto contribuire a trasformare il paesaggio sociale e culturale dell’Italia unita —, torna a preferire strutture verticizzate e forme più riparate d’iniziazione, chiudendo la propria carriera come Grande Ierofante del Rito Antico e Primitivo, suprema carica dei rami rituali di Memphis e Misraïm”.

In conclusione del mio percorso storico culturale su Garibaldi si può sostenere che la sua figura è tutt’altro che limpida ed esemplare, tanto nella prospettiva religiosa quanto in quella civile, se si considera un valore la continuità identitaria della nostra nazione. Indubbiamente Garibaldi è una figura che contribuisce a dividere e non, come auspicato, a unire: accettarne l’icona equivarrebbe infatti ad accettare un’unità intossicata da una falsa e ideologica nozione d’italianità, in contraddizione con le radici più genuine della civiltà italica. Non a caso Garibaldi fu assunto come emblema nel 1943-1945 dalle brigate partigiane comuniste, nonché dal Fronte Popolare socialcomunista nella battaglia elettorale — felicemente persa — del 18 aprile 1948.

S. Teresa di Riva ME, 21 agosto 2013
Festa di S. Pio X, Papa.                                                               DOMENICO BONVEGNA

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